La recensione

Ann Van den Broek e la compagnia WArd/waRD: l’oscurità illuminante di The Black Piece al Teatro Vascello per REf16.

The Black Piece, lavoro geniale che Ann Van den Broek ha costruito con la sua compagnia fiamminga WArd/waRD, è andato in scena a Romaeuropa 2016 all’interno della rassegna Olandiamo, il focus dedicato alla nuova danza dei Paesi Bassi. Tra danza e immagini video, la performance si è svolta “al buio” con ballerini ora illuminati da una pila a mano ora da una torcia elettrica. Uno sprofondamento sensoriale che ha preso gli spettatori per 80 minuti di puro coinvolgimento emotivo.

Romaeuropa festival 2016 ha puntato i riflettori anche sulla nuova danza olandese con Olandiamo, focus costruito con il sostegno del Fonds Podium Kunsten Performing Arts Fund NL e con il contributo dell’Ambasciata dei Paesi Bassi. Tra gli spettacoli di questa sezione, oltre a quelli di Jan Martens e Nicole Beutler, si inserisce The Black Piece, lavoro geniale che Ann Van den Broek ha costruito con la sua compagnia WArd/waRD, fondata nel 2000 ad Anversa dopo la sua vigorosa attività di danzatrice e poi estesa nel 2008 anche in Olanda. Al pezzo è stato assegnato il premio Zwaan – Swan Award (promosso dalla VSCD Dutch Association of Theatre and Concert Hall Directors) come la produzione di danza più prestigiosa della stagione 2014/2015.

Questa avvolgente performance, concepita tra danza e immagini video, è andata in scena al Teatro Vascello di Roma il 5 e 6 novembre 2016. Lo spettacolo ha divelto le separazioni spaziali tra danzatori e pubblico in un palcoscenico completamente buio: una sublimazione percettiva che ha provocato 80 minuti di sprofondamento sensoriale. Ma procediamo con ordine.

The Black Piece è un’opera dichiaratamente ispirata al libro Black, The History of a Color di Michael Pastoureau. “Tutto ha origine dal nero, dalla grande notte”. Ma il nero, colore archetipico del buio e della morte, assume significati misti e ambivalenti: è infatti associato agli inferi come alla virtù monastica, al lusso e all’eleganza così come alla malinconia e al minimalismo. Ha perciò una sua connotazione sociale e storica che non può essere ignorata; è il colore dei religiosi e dei penitenti, degli artisti e degli asceti, dei frivoli modaioli e dei combattenti. Pervade con forza idee opposte: autorità ed umiltà, santità e peccato, ribellione e conformità, salute e povertà, buono e cattivo. Da questi principi parte l’opera della Van den Broek che vuole riportare la luce rivelatoria del nero in tutte le sue sfumature.

Ho avuto il privilegio di assistere allo spettacolo dopo aver seguito l’artista in una masterclass organizzata da Romaeuropa con Let’s dance, progetto rivolto a danzatori professionisti per sperimentarsi con workshop di coreografi intervenuti nel festival. La lezione (tenuta il 5 novembre presso il Balletto di Roma) si è prevalentemente concentrata su passaggi di stato emozionale. Attraverso esercizi immaginativi che coinvolgevano la dimensione corporea, ai partecipanti è stato richiesto di transitare tra rabbia, gioia, dolore e desiderio mediante on/off veloci, lucidi, controllati. Un traffico emotivo repentino che sarebbe poi stato uno degli elementi portanti nella rappresentazione di The Black Piece. Al termine del workshop quindi, lo spettacolo già si preannunciava intenso e coinvolgente.

E’ il momento della messa in scena. Iniziamo a prendere posto, mentre sul palco Ann Van den Broek ci sta aspettando paziente assieme al cameraman Bernie van Velzen, entrambi in outfit rigorosamente nero. Alcuni vestiti, scarpe, oggetti appaiono ordinati in senso sparso sul pavimento. Comincia così in silenzio a suggellarsi quel patto assoluto tra lei, regina indiscussa della regia, e il suo pubblico consenziente, disposto ad affidarle le redini del proprio labirinto sensoriale.

Attraverso un comando regolato dalla stessa Van den Broek vengono spente le luci e inizia il nostro viaggio nel buio. Si percepiscono presenze sparse in tutto lo spazio del teatro: platea, discese, camminamenti e palcoscenico sono popolati da sagome, ombre, passi furtivi… quindi si odono risate, gemiti, fruscii di vesti, respiri affannosi. Difficile rimanere impassibili di fronte al potere ansiogeno di quelle figure oscure; l’insicurezza di quello che si ha davanti provoca quasi imbarazzo, ma la curiosità e l’attesa impaziente iniziano a prevalere sul disagio. Ed ecco che sprazzi di luce provenienti da una torcia elettrica inquadrano movimenti contestualmente proiettati su uno schermo, mentre una piccola lampada per mano della Van den Broek vaga nel buio, seguendo i performer e scegliendo quale situazione rivelare e quando. Sono immagini che bucano le scene acuendo il trance percettivo degli spettatori. Nel frattempo le canzoni di Gregory Frateur del gruppo Dez Mona, nella composizione battente di Arne Van Dogen, accrescono l’atmosfera drammatica.

Non avendo sufficienti elementi visivi per controllare come si evolverà la storia in atto, e disorientati a causa dell’incerta provenienza dei rumori di scena misti alla musica, gli spettatori si trovano continuamente a rinegoziare una incerta stabilità tra lasciarsi andare e rimanere nella condizione di all’erta. Si inizia persino a dubitare che quello a cui si sta assistendo avvenga nella realtà: le stesse immagini a video risultano a volte provenienti da attori differenti da quelli presenti, mentre l’ambiguità regna sovrana tra trasformismi di genere, verità celate, oggetti che cambiano di volta in volta significato per i cinque tormentati performer in ballo (e per quelli virtuali che si aggiungono saltuariamente dallo schermo). Sono forbici, bambole, lastre RX toraciche, unghie smaltate, microfoni, tatuaggi, tacchi alti che irrompono nel nostro inconscio come simboli che pretendono di uscire allo scoperto ed essere riabilitati. Ci rendiamo conto di essere precipitati in una sorta di dipendenza emotiva per quelle vite che ormai ci appartengono, delle quali vogliamo sapere tutto incluso quello che non si vede, in una narrazione che prosegue altalenante tra immagini video e scene in presenza che scorrono veloci, mettendo in luce trasgressività, paura, erotismo, desiderio, con un racconto sempre raffinato, senza eccessi inopportuni.

E se il buio inizialmente era per noi più che altro un mezzo per farci immergere nella storia, eludendo le fredde separazioni tra platea e palco, adesso percepiamo un nero quasi luminoso, che assume forme dissimili tra le sue variopinte sfumature. Ed è un nero con cui facciamo amicizia, che ha perso la sua denotazione statica per coincidere con un’idea di movimento comunicativo assieme ai disparati stati emozionali che vengono di volta in volta lanciati dal palco. Come in una camera oscura dove sta progressivamente sviluppando la sua pellicola, lo spettatore, catturato da una sensibilità dei sensi a cui non era avvezzo, mette a fuoco la sua interpretazione dei fatti scegliendo quale tra le realtà mostrate più lo rappresenti.

I rarefatti momenti in cui, d’improvviso, la Van den Broek accende le luci sul palco costituiscono il rendez-vous manifesto di quelle anime notturne di cui si capta una sintonia perfetta; la forte espressività dei loro movimenti in danza, così assolutamente sincroni e tecnicamente ineccepibili, rivela livelli di concentrazione e tensione drammatica mai calanti, con standard performativi al top. Diventa così quasi palpabile l’affiatamento e l’intesa che dominano gli elementi della compagnia WArd/waRD; li immaginiamo come una comunità coesa che si ritrova a pensare e creare “out of the box”, facendo uso di una fantasia senza schemi e conformismi.

Giungiamo così al termine dello spettacolo in pieno turbamento d’animo ma appagati dall’armoniosa complessità a cui abbiamo assistito, mentre le scene finali regalano l’ultima enfasi all’aspetto generativo del nero figurativamente associato alla fertilità, al parto, alla creazione di una nuova vita. Perché proprio come il cosmo che ha avuto inizio dal caos e dal buio, dall’oscurità può erompere il chiaro e la trasformazione.

Giannarita Martino

@giannarita

 

Foto: The black piece di Ann Van Den Broek, ph. Maarten Vanden Abeele.

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3 Commenti

  1. caterinagiangrasso

    Lo spettacolo di Ann Van Den Broek The Black Piece è fatto di un buio ossimoricamente luminoso. Nella strabiliante ed emotivamente impagabile messa in scena c’è il coinvolgimento in prima persona anche dello spettatore inerme e indifeso nel buio che viene controllato solo dalla coreografa con una torcia utilizzata per illuminare porzioni di palcoscenico in cui avviene il puro atto performativo.
    Nel frattempo interviene anche la messa in video del cameraman Bernie van Velzen, il quale illumina e proietta le immagini dei danzatori sullo schermo sistemato sul fondale del palcoscenico, in modo voyeuristicamente esplicito. Tutti gli elementi, a partire dalla nevrosi che connota i brevi e intensi momenti coreografici illuminati, sono messi insieme per confutare le convinzioni dei sensi. Ed è bellissimo nella misura in cui la danza è realmente libera da sovrastrutture tecniche ed estetiche per confluire nell’espressione energica e a tratti prepotente di idee che, in modo incontrovertibile, diventano gesti.
    Caterina Giangrasso
    Danzaeffebi meets #REf16

    Nov 25, 2016 @ 19:55:20

  2. dimuziotiziano

    ROMAEUROPA FESTIVAL 2016
    THE BLACK PIECE, Teatro Vascello
    6 novembre 2016

    «Esiste sempre più di una verità. La stessa cosa vale per il colore nero. Se lo si guarda con attenzione nasconde molti altri colori».

    Con The Black Piece, ispirato al libro Black, the history of a color dell’antropologo francese Michel Pastoureau, Ann Van den Broek invita gli spettatori, attraverso una forte esperienza sensoriale (in particolar modo l’udito), a condividere lo spazio-tempo – quello della performance – in cui, attraverso il buio assoluto e la predominanza del colore nero, è annullato il distacco tra platea e palcoscenico, tra danzatore e pubblico che, fin dall’inizio, sono immersi nell’oscurità.

    Il panorama acustico introduttivo è fitto di passi accelerati, singhiozzi, respiri affannati e macabre risate che si avvertono nell’ombra. Un numero imprecisato – come la stessa coreografa desidera non rendere da subito chiaro – di performer, presenti sulla scena e tra gli spettatori, appaiono e si disperdono quasi contemporaneamente tra suoni amplificati, strofinio di vestiti e fogli fatti a pezzi.

    All’inizio, sotto la costante presenza di un “effetto temporale” che, in realtà, si rivela come la sensazione autentica di chi sta assistendo a uno spettacolo all’aperto sotto la pioggia, lo stato d’animo di chi osserva è contrassegnato da un senso di smarrimento e ansia, nonostante le buone intenzioni di Ann Van den Broek che dichiara di invitare gli spettatori a condividere con loro questo spazio, creando le condizioni «affinché ognuno si senta a suo agio, senza spavento, senza sentimenti negativi». Obiettivo che a mi avviso si raggiunge, lentamente, solo durante lo svolgimento dell’opera.

    In seguito, inattesi squarci di luce bianca s’intravedono sullo schermo che occupa la parte centrale/superiore del fondale e, timidamente messi in risalto, si avvistano forbici, cavi che tagliano in maniera irregolare la scena, bambole, tacchi alti, una lavagna luminosa e microfoni.

    «I danzatori – spiega la coreografa – attraversano diversi stati emotivi: agiscono al buio» con volti spaventati, piedi nudi, dita smaltate, corpi schivi che generano incontri-scontri intimi e, spesso, ambigui. La visione dello spettatore e il movimento dei protagonisti sulla scena sono guidati dalla stessa Van den Broek che, attraverso una piccola fonte luminosa, rischiara solo precisi frammenti di palcoscenico mettendo in risalto determinate parti del corpo dei performer: ecco tracciarsi, di conseguenza, sorprendenti disegni nella semioscurità attraverso ombre ed effetti chiaroscurali che dilatano e deformano ogni segno scenico. Quasi istantaneamente ho pensato a quell’esercizio intellettuale, caratteristico del Settecento, che consisteva nel compiere visite notturne nel Cortile delle Statue del Belvedere o nei Musei Vaticani e Capitolini, a lume di fiaccole. Questo consentiva di vedere la scultura isolando ciascuna porzione di ogni figura, affinando nei visitatori l’attenzione verso i particolari; inoltre, il tremolio delle fiamme e il movimento delle fiaccole creavano, tutt’intorno, un gioco di ombre che proiettavano sulle pareti circostanti le azioni che l’opera rappresentava e che erano “imprigionate” nel marmo. Non a caso la “strega cattiva della scena fiamminga” (così è stata definita Ann Van den Broek) afferma: «Sono io che scelgo quando illuminare una situazione o un’altra per creare tensione drammatica, rompere atmosfere, mantenere i danzatori in allarme, dare la possibilità di vedere un’azione allo stesso tempo da vicino e da lontano, suggerire una doppia verità. Paura, aggressività, desiderio, lussuria, ogni interprete incarna una diversità di stati d’animo, a volte cavaliere nero a volte strega».

    Un’altra torcia elettrica è utilizzata dal cameraman Bernie van Velzen il quale, mentre con una camera riprende dal vivo le immagini che dall’oscurità (s)bucano sullo schermo, rende possibile l’impercettibile formarsi dello spazio; a esso si accompagnano la musica ritmicamente percussiva e inarrestabile di Arne Van Dongen e i brani inediti scritti dal cantante Gregory Frateur: uniche melodie a dare letteralmente voce all’enfasi dei corpi che, solo in pochi momenti ben definiti, occupano l’avanscena perfettamente illuminati come a mostrare la potenza espressiva e sensuale delle loro fisicità “intrappolate”, pronte a mostrare con «nuove modalità espressive» e comunicative la «cura dei movimenti», lo «stato di concentrazione fisica e mentale» che il buio li costringe a costruire unitamente a un processo di ascolto che si rende, in maniera evidente, indispensabile.

    Il ruolo delle riprese video in real-time è fondamentale: impone una riflessione sul rapporto realtà-rappresentazione e sulla difficile relazione tra la percezione e ciò che realmente accade. Quello che osserviamo, che spesso e necessariamente dobbiamo immaginare, o che vediamo nitidamente nell’arco di ottanta minuti, è un film o la realtà?

    The Black Piece è uno spettacolo sicuramente non facile, impegnato e concettuale, in cui azione, suono, video e immagini convivono in un concept che va “oltre” l’idea stessa di teatro e danza; una performance che non lascia indifferenti ma che, allo stesso tempo, può essere non fruibile per tutti (molti, durante la replica del 6 novembre sono andati via prima della fine) nonostante proponga un the end che racchiude in sé un «messaggio positivo, di fertilità», nel momento in cui fa riferimento al modo in cui il nero è stato interpretato nella mitologia: «colore primario ma anche colore del movimento e della luce». Attraverso un climax ascendente che dal buio arriva lentamente verso il bagliore – dato dalla struttura stessa del libro di Pastoureau – il nero diventa attraente, coinvolgente e le immagini si fanno accattivanti, trasgressive, spesso erotiche e carnali all’interno di un’ambiguità manifesta di genere: progressivamente, si scoprono altre verità rispetto a quelle che l’immaginazione, inizialmente, aveva potuto suggerire a ognuno di noi.

    Tiziano Di Muzio

    Nov 25, 2016 @ 22:36:13

  3. Lorenzo Vanini

    Emozioni, equilibrio e disequilibrio, questi, a mio avviso i punti cardine della Masterclass tenuta da Anna van den Broek, presso il Balletto di Roma.

    La lezione inizia con alcuni esercizi di allineamento e yoga, mirati tanto a riscaldare quanto a far pendere consapevolezza, ai danzatori, del peso del corpo e della propria respirazione.
    Il parallelo è molto stretto, per lavorare più in profondità la mobilità della colonna e sentire il rapporto nuca-tallone, uno dei tanti elementi presenti nel riscaldamento, che rimandano alla danza di Trisha Brown.
    Dopo ciò e dopo alcuni massaggi presi dalle arti marziali, mirati a riscaldare la pianta del piede per una migliore stabilità, sono stati proposti ai danzatori una serie di esercizi basati sul concetto di equilibrio e disequilibrio, senza dimenticare ovviamente il peso del corpo. Indispensabile, in questo caso, per acquisire della velocità, il totale rilascio delle tensioni del corpo.
    Partendo, quindi, da questo concetto di equilibrio e disequilibrio, si è arrivati alla marcia, che non è altro che un alternarsi di questi ultimi.
    Camminare, come correre, nonostante sia il movimento organico per eccellenza, rimane il tallone d’Achille del danzatore medio, confermando il fatto che, in scena, le cose più semplici sono anche le più complesse.
    Dopo questa prima parte un po’ più tecnica, la coreografa si è dedicata ad esercizi più laboratoriali, abbordando il concetto di stato emozionale e come quest’ultimo influenza il corpo, creando tensioni e rilassamenti. Anche in questo caso, il punto di partenza, e la difficoltà maggiore, è la semplicità, il danzatore deve partire da uno stato d’animo neutro, con gli occhi chiusi, e passare, senza recitare, da uno stato d’animo all’altro. Il risultato è magnifico, senza troppe espressioni e con il solo linguaggio del corpo, i danzatori riescono a rappresentare, vivendoli, differenti stati emozionali, come paura, rabbia, amore e dolore.

    Con questo meraviglioso workshop termina la mia esperienza al festival Romaeuropa, un’esperienza gratificante, mi ha arricchito in quanto danzatore e persona. Colgo l’occasione per ringraziare Danzaeffebi, per l’opportunità e la fiducia datemi, sperando ci saranno altre nuove occasioni per collaborare in futuro.

    Lorenzo Vanini
    Danzaeffebi meets #REf16

    Dic 01, 2016 @ 20:23:00

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