La recensione

REf16. Al Teatro India, Christos Papadopoulos e Yasmine Hugonnet per DNA Aerowaves.

Il Teatro India di Roma ha ospitato il 3 e il 4 novembre 2016 il focus DNA Aerowaves, nato nel 2015 dall’incontro tra il Romaeuropa Festival e la rete fondata da John Ashford che si occupa di selezionare e promuovere i lavori dei più promettenti artisti d’Europa. Per il Focus sono andati in scena due lavori: Elvedon del greco Christos Papadopoulos ispirato al romanzo Le onde di Virginia Woolf, uno studio affascinante che insiste su un unico gesto creando infinite suggestioni visive; Le Récital des postures della svizzera Yasmine Hugonnet, monologo silenzioso e poetico di una donna che espone se stessa come scultura vivente della propria storia. Sorpreso il pubblico dell’India, caloroso negli applausi finali per entrambi gli artisti.

Nato come indagine del Romaeuropa Festival sulla giovane danza italiana, il focus DNA (acronimo di Danza Nazionale Autoriale) ha progressivamente ampliato il proprio sguardo oltre i confini locali, inglobando i codici genetici del nascente estro europeo. Il programma è oggi triplice: resiste l’originaria esplorazione dei progetti italiani (quest’anno, C&C Company e Lara Russo), così come DNA Appunti Coreografici, selezione di autori emergenti presentato il 16 novembre 2016 in Opificio Romaeuropa; si aggiunge DNA Aerowaves, vetrina in collaborazione con il network europeo Aerowaves diretto da John Ashford già direttore del The Place di Londra (tra gli artisti selezionati per il 2017 anche gli italiani Francesca Foscarini e Daniele Ninarello).

Sul doppio palcoscenico del Teatro India, DNA Aerowaves ha ospitato quest’anno (tra il 3 e il 4 novembre 2016) due autori profondamente diversi tra loro, rappresentanti agli antipodi dell’avanguardia artistica europea: Christos Papadopuolos in scena con Elvedon e Yasmine Hugonnet  in scena con Le Récital des Postures.

Christos Papadopuolos, trentanovenne greco con molteplici studi alle spalle (SNDO Amsterdam School of the Arts e Drama School of the National Theatre of Greece), nonché fondatore della compagnia Leon and the Wolf, è un autore che dimostra estrema lucidità coreografica, orientato verso una ricerca sperimentale sul moto, ma già in grado di fissare sulla scena quadri di chiara lettura e accattivante disegno.

Disposti nei diversi angoli della loro Elvedon (luogo immaginario tratto dal romanzo Le Onde di Virginia Woolf), i sei personaggi di Papadopoulos assecondano un battito regolare su un sottofondo ritmico cupo che ne nasconde i volti e le intenzioni. Di spalle al pubblico e piegati in avanti, i sei si sollevano lentamente e si espongono alle luci della coscienza, automi di un rimbalzo costante ed impellente. Minime variazioni del calpestio (a cui si aggiungono braccia oscillanti, camminate interrotte e arretramenti) lasciano che il gruppo si componga e si sciolga tra i vicoli di un percorso immaginario: intersezioni senza contatti, tra sorrisi accennati e sguardi che si incrociano per brevi, impercettibili attimi.

 

Il terremoto lieve del gruppo si trasforma, sul finale, in una corsa pericolosa che schiva appena i limiti della scena, modificando le direzioni in modo repentino e inquieto; uno stormo in balia dello slancio vitale, a cui gli uomini singolarmente soccomberanno e in cui continuamente li vedremo rinascere. Cadranno uno ad uno per poi continuare a muoversi su quel sussulto irrefrenabile e mai stanco, in un tempo che non smetterà di oltrepassarli.

 

Ci troviamo di fronte alla reiterazione esasperata di un unico gesto, un rimbalzo del corpo che non abbandona il terreno e che non aspira mai veramente alla verticalità, ma al più ampio spazio percorribile. Il sussulto di Papadopoulos è esattamente il contrario di una frenesia schizofrenica e compulsiva; è, piuttosto, il sezionamento millimetrico del movimento che sposta l’attenzione dall’obiettivo alle intenzioni per scoprirne l’attimo il più possibile presente e consapevole. Il centro cosciente diventa l’azione stessa, al di là di ogni possibile agente e del successo o fallimento dell’atto.

I sei interpreti di Elvedon (i bravi Nandi Gogoulou, Ermis Malkotsis, Amalia Kosma, Georgios Kotsifakis, Epameinondas Damopoulos, Hara Kotsali) non saranno mai se stessi e nemmeno i personaggi di Woolf: saranno un flusso di vita senza sosta, distinti e per sempre uniti, inghiottiti dai flutti di un oceano instancabile. Lavoro esteticamente intrigante e sofisticato, Elvedon evidenzia il talento di un autore intelligente e innovativo da tenere d’occhio. Molto buona l’accoglienza del pubblico dell’India.

L’artista svizzera Yasmine Hugonnet è invece protagonista di una performance carica di intensità, ma anche di ironia e originalità. Autrice dal percorso densissimo (studi di danza classica a Montreux e Ginevra prima del perfezionamento contemporaneo al Conservatoire National Supérieur de Paris, qualche mese con Trisha Brown a New York, l’incontro con la tecnica giapponese Butō e poi la ricerca coreografica che la porta a fondare, nel 2010, la compagnia Arts Mouvementés), Hugonnet estende se stessa come scultura vivente della propria storia. Récital des postures è simile ad un collage di antiche diapositive in cui scorre l’essenza più intima di una donna solitaria, autrice e protagonista di un racconto silenzioso.

Inizialmente piegata in avanti, coperta da abiti grigi, la vediamo scomporsi con lentezza fino a distendersi su un pavimento bianco e troppo ampio. In apparenza sofferente, ingabbiata nelle posizioni scomode della vita adulta, la vediamo liberarsi da ogni costrizione fino ad esporsi franca e nuda tra le pareti accecanti del mondo. Una nudità che non cerca e non aspira a seduzione, ma che trova in se stessa l’abito di un’identità multiforme tra movimenti duramente conquistati e finalmente liberatori. Vediamo Hugonnet in ogni aspetto e direzione: si piega, si rialza, viaggia sulle mezze punte e percorre lateralmente la scena come una nuova Isadora Duncun, si allaccia ai suoi stessi capelli e li porta con sé come ultima appendice di una femminilità misteriosa.

 

Poi raggiunge il proscenio, si inginocchia e guarda il pubblico con un’autorevolezza per nulla intaccata dall’improbabile copricapo (una bottiglia che le tiene sollevati i capelli in un grande cono bruno). Il finale è una sezione di ventriloquia: suoni inattesi da corde vocali invisibili che ci portano non tanto a chiederci il significato dei versi (esortazioni brevi e ripetute in francese e inglese come Alé e Ready?), quanto ad osservare la donna e il suo atto come echi di un’intimità femminile in trasformazione.

Hugonnet sorprende e lo fa con la semplicità discreta di chi si abbandona alla propria ricerca senza forzarne gli esiti. È l’osservazione minuziosa del suo stesso corpo che la porta ad attivarne il linguaggio, lavorando più sull’essenzialità del gesto che sulla strutturazione del movimento: un corpo che si consegna allo spazio per potenziare i propri contorni.

Uno studio acuto ed equilibrato, viaggio muto tra la ricerca del sé e l’esposizione all’altro, che apre la via ad ulteriori indagini in una modalità lucida e poetica insieme. Incuriosito e sorpreso, il pubblico dell’India ha applaudito con calore l’autrice svizzera ospite del Ref16.

Lula Abicca

25/11/2016

Foto: 1.-3. Christos Papadopoulos – Elvedon, ph. Patroklos Skafidas; 4.

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3 Commenti

  1. Deha09

    Sai che non sarà una serata normale, che non troverai ad accoglierti i rassicuranti palchi e i pregiati velluti, tutto questo cede il passo a travi a vista, ampi spazi essenziali, gradinate e normalissime sedie… sei al Teatro India, dove sai che troverai un teatro di avanguardia e di ricerca. Non sarà la tranquilla serata fatta di pece e raffinati costumi, ma di corpi veri e linee scarne. E’ DNA Aerowaves, dove protagonista è la performance che ti stupisce, ti scuote e ti fa riflettere. A farlo sono quattro giovani donne.
    Quattro protagoniste della danza emergente e fresca. Usano linguaggi e messaggi diversi, ma un’unica voglia di esprimere liberamente il proprio essere artiste e il proprio concetto di movimento.
    Quattro quadri diversi in una sola serata.

    Yasmine Hugonnet: protagonista Svizzera di Le Recital des Postures fisico esile, capelli sciolti. Nulla di più. Né musica, né scenografia. Si muove con originalità e semplicità e con molto coraggio. Nudità, ventriloquia, un gesto particolare che racchiude qualcosa di molto intimo e scopre un mondo parallelo tutto suo. Uno spettacolo non facile e nemmeno immediato, ma che non ti lascia indifferente.

    Ayala Frenkel: protagonista israeliana del primo format di un lavoro coreografico di gruppo ideato da C&C COMPANY | RESIDENZA IDRA, un lavoro che vuole gridare – attraverso il gesto – un’emergenza sociale. Qui troviamo un’immagine di donna velata che si muove in maniera quasi scomposta per riuscire a trovare un proprio spazio, un posto in un Mondo dove non è facile trovare la propria identità.

    Marion Alzieu: francese, flessuosa ed energica. Grintosa e appassionata. Il momento più coreografico di tutta la serata. Cercare un messaggio a tutti i costi non so quanto possa valere, non so quanto sia giusto. Penso che a volte bisogna godersi quello che si sta vedendo e lasciarlo così, impresso nella mente. Carico delle sue emozioni.

    Chiara Taviani. Italiana, che spiazza in una messa scena teatrale sulla paura del terrorismo con accenti in lingua francese e inglese. Perché si sa che la paura è trasversale. Poca danza e molta performance. Un progetto sicuramente lodevole di grande studio e passione, dove si mette al servizio di un concetto il proprio strumento corporeo.

    Serata coinvolgente, dove si assapora il piacere della sperimentazione e ci si contamina e confronta con qualcosa che ti porta altrove.

    Finisce così la mia esperienza al Romaeuropa Festival a cui devo un grazie, perché con questo progetto, ha portato le testimonianze e le esperienze vissute di questo nostro Continente che a volte sentiamo così lontano, di cui non ci sentiamo mai troppo parte. Un Grazie a Danzaeffebi per la fiducia riservatami. Per tutti gli incontri fatti e per avermi dato la possibilità di percorrere sentieri che forse – da sola- non avrei intrapreso. Per tutte le esperienze vissute e per quelle che ne potranno derivare.

    Deborah D’Orta
    Danzaeffebi meets #REf16

    Nov 25, 2016 @ 17:59:34

  2. Lorenzo Vanini

    «Vedo un anello» disse Bernard «sospeso sulla mia testa. Pendente, tremulo e vibrante, in un cerchio di luce».
    «Io vedo una lastra di un giallo pallido» disse Susan «che fugge via fino a perdersi in una striscia violetta».
    «Io odo un suono» disse Rhoda «cip cip, cip, cip; su e giú tra i rami».
    «Io vedo un globo» disse Neville «pendulo come una goccia contro i fianchi immensi di una qualche collina».
    «Vedo una nappa color cremisi» disse Jinny «con fili d’oro intrecciati».
    «Io sento come uno scalpitío» disse Louis. «Il piede di un grosso animale è stato incatenato. E la bestia scalpita, scalpita, scalpita».
    Sei personaggi, sei fisici e personalità differenti, Le Onde di Virginia Woolf e Elvedon, da cui Christos Papadopoulos prende spunto, iniziano nello stesso modo.

    Lo spettacolo è uno straordinario flusso di coscienza danzato, tanto semplice quanto complicato, senza paragrafi, pulito.
    I sei danzatori, senza lasciare il loro “bounce”, creano immagini, schemi, paesaggi, attraverso passi quasi impercettibili, ipnotizzando lo spettatore, che talvolta non percepisce, se non a cose fatte, i cambiamenti di posizione.
    La genialità di Elvedon è proprio questa “semplicità complicata”, la volontà di portare fino alla fine, spolpare fino all’osso, un’idea semplice, proprio come Virginia Woolf.
    Durante il warming up Papadopoulos ha spiegato, che tutti noi siamo costantemente nel voler “fare” e non lasciamo arrivare le cose. Per entrare nell’ottica del coreografo bisogna, dunque, lasciare la nostra componente istintiva, o meglio “meccanica”, per entrare in una dimensione più meditativa, dove la semplice azione di “allacciarsi le scarpe” può durare cinque minuti.
    Elvedon è semplice, ma non per questo di facile comprensione, anzi per un occhio poco attento può sembrare un ennesimo esempio di “Non danza” onanistica e vuota e invece la danza c’è eccome, in ogni movimento, sguardo o intenzione dei danzatori.

    Lorenzo Vanini
    Danzaeffebi meets #REf16

    Nov 28, 2016 @ 22:56:46

  3. marcoguarna

    LARA RUSSO, RA-ME, Cercare Coraggio/Proteggere Innocenza
    Teatro India, 6 novembre.

    Il palco è vuoto, delimitato da un tatami nero. Ci sono tre giovanissimi performer, tutti uomini, vestiti di nero, scalzi, le braccia nude. Maneggiano mirabilmente ciascuno una lunga asta di rame, i muscoli si tendono nello sforzo. Lo spettacolo di Lara Russo, vincitrice del premio DNAppunti coreografici, inizia con movimenti lenti, essenziali, forse un’eco della formazione ‘butoh’ della coreografa, come l’idea del corpo –oggetto, mosso da energie misteriose, interne o esterne, impersonali. Il tessuto sonoro è anch’esso minimale, rarefatto, e poi industriale, percussivo, dissonante: accompagna la danza con sequenze ipnotiche. RA-ME, ulteriore tappa materica della Russo, dopo ALLUMINIO, va in scena all’India in una versione nuova, estesa dagli originali ’15 minuti visti a Venezia e prende dunque corpo e significato.
    Della lentezza del gesto, che porta oltre, verso l’essenza, appunto, non si è mai raccontata abbastanza la bellezza e l’importanza. Purché, come qui accade, sia concepita con maturità, ed eseguita con formalità impeccabile. Il piacere dello spettatore che guarda è forse pari a quello del danzatore che lo agisce, vivendo ogni singolo gesto.
    Dapprima, si legge il pezzo come una sperimentazione che è un incontro tra un’istallazione site-specific ed una danza, l’estendersi dell’arte visiva in quella performativa ed il contrario (anche le dichiarazioni dell’autrice, ci mettono su questa pista). E si tratta già di un tema alto: i materiali, gli spazi, poi le luci. Luci che qui sono un elemento fondamentale: incendiano il rame, scolpiscono i profili. Ed in tutto questo: i gesti, i respiri, la carne. Assistiamo ad una sperimentazione adulta, densa di contenuti, dove spesso, in questi casi si resta nella gag, oppure si suona pretenziosi ed inautentici.
    Poi ci sono altre letture: i tre, danzando, inseguendosi, uniti, poi divisi, ricreano un’estetica da avanguardia, delle linee moderniste. Ci portano qualcosa dei canoni mitteleuropei e Russi di un altro secolo. Ballerini e metalli sono stai anche il canto alla tecnologia, nel sogno suprematista, ad esempio.
    C’è ancora dell’altro. L’asta che rotea e sibila rende questa danza simile ad una giostra, ad un esercizio marziale. Ciò che resta, infine, di questo RA-ME, è una danza apollinea, virile, fatta per l’ascesi.

    Marco Guarna
    Danzaeffebi meets #REf16

    Dic 11, 2016 @ 10:22:40

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