La recensione

A REf16 i desideri viaggiano attraverso i sogni di Vim Vandekeybus e della sua compagnia Ultima Vez, con In Spite of Wishing and Wanting.

Sold out per Vandekeybus con il revival di In Spite of Wishing and Wanting, lavoro nato nel 1999 che integra musica, balletto, cinema e recitazione. Lo spettacolo ha portato in scena i desideri e le paure di 10 uomini che, privati del confronto femminile, si servono dei loro sogni per scoprire la propria intimità più profonda, senza censure e limitazioni.

A Romaeuropa festival 2016, si conferma l’attaccamento del pubblico italiano nei confronti del fiammingo Vim Vandekeybus e della sua poliedrica compagnia Ultima Vez: già la prima serata di In Spite of Wishing and Wanting – l’11 ottobre 2016 al Teatro Argentina di Roma – fa registrare il sold out e l’acclamazione della sala per l’autore e i suoi ballerini.

Lo spettacolo è il revival di un’icona della danza maschile contemporanea; il lavoro originario risale al 1999 quando l’autore porta in scena, tra danza, teatro e cinema, 10 personaggi maschili attraversati dalla legge del desiderio e soggiogati dall’istinto. Vandekeybus riesce così a far concentrare l’attenzione, per la prima volta, su uomini sfrondati dalla presenza femminile, protagonisti ritrovati di energiche sequenze che integrano musica, balletto, cinema e recitazione tra scene oniriche danzate, dialoghi multilingue e video dai colori accesi.

Lo spettacolo sancisce anche la sperimentazione dell’autore con la regia filmica. The Last Words è il cortometraggio in due parti che si alterna sul palco tra i ballerini/attori, e che si serve di scene in cui la forte saturazione delle tinte esalta la narrazione grottesca che è ispirata al Racconto senza morale di Julio Cortàzar. Ci troviamo di fronte a un ambulante che vende parole, grida, sospiri e gemiti ad una società che ormai ha perso il gusto e la capacità di crearli da sé, andando però incontro alla sua stessa morte a causa di dispotici governanti autocratici. Singolare la scelta della lingua italiana per la maggior parte dei dialoghi nella pellicola; un omaggio felliniano che ne enfatizza l’atmosfera irreale e paradossale.

Uno spettacolo straripante di surrealismo, dunque, condito dalla sensuale musica di David Byrne che dall’incontro con il fiammingo fa scaturire la sua personale folgorazione per la danza contemporanea (terreno che aveva lasciato fino ad allora inesplorato) per dedicarsi alla composizione originale e ai passaggi sonori di tutta la performance.

Assistere alla versione attuale di In Spite of Wishing and Wanting è quasi trovarsi a guardare una fotografia recente scattata con un filtro un po’ retro. La riconoscibilissima contemporaneità dei nuovi giovani protagonisti cerca di immedesimarsi in un discorso passato ma sempre attuale. Il contrasto si mette ancor più a fuoco quando le parti dal vivo vengono intermezzate dai pezzi del film originale dove tutto il cast dello spettacolo recitava; una sorta di memoria storica dello spettacolo!

Ci imbattiamo così in maschi allo stato puro “nonostante quello che vogliono e che desiderano”. A tratti goliardici, ma soprattutto soli, sebbene assieme e in gruppo. Il palcoscenico è vuoto, assente di scenografie, espediente che, come rivela lo stesso Vandekeybus, lo aveva aiutato a concentrare le sue risorse sulle persone, sulla danza e sulla produzione del film. Ma che risponde bene all’esigenza di un “non luogo” in cui far confrontare i performer con le loro voglie e intimità più nascoste, ma anche con le loro paure e i loro fantasmi, fino a portarli a guardare giù, in fondo alla loro stessa anima. L’assenza della chimica femminile fa sì che l’erotismo esca ma rientri sempre da tutte le porte, assente e allo stesso tempo continuamente presente. Sono cavalli testardi, imbrigliati nel cappio dei propri desideri ed eviscerati dalla pulsione sessuale: scalpitano, sbuffano, scappano, ma in realtà richiedono imploranti di essere domati per dare una linea a quel volere a cui non riescono a dare risposta.

E subito inizia il sogno; ci si chiede se quegli uomini siano esseri consapevoli o solo sonnambuli, se continuino ad essere adulti o se siano tornati bambini, tra tenere immagini infantili mai dimenticate: voli di uccelli, rane, spugne marine, piume volanti, incursioni a sorpresa tra il pubblico… Ma sono gli stessi uomini che si trovano a combattere i propri incubi e deliri, tra cuscini che esplodono e gesta convulse che mimano una bestialità primitiva, scevra da inibizioni ed educazioni. Mentre i tratti di danza pura – genuina poesia! – esplorano linee verticali rotanti, sfidano la gravità in voli azzardati, ipnotizzando lo spettatore nello show di assoli, duetti e trii che dipanano insiemi gruppali mai alienanti: per tutto lo spettacolo si continua infatti a riconoscere la perfetta singolarità dei performer, con ciascuno dei diversi caratteri. Sono danze e sequenze libere, a volte sfrenate in cui soltanto l’intervento di un direttore/domatore può riportare ordine, a sottolineare forse quel dualismo costante che fa scegliere se vivere i propri desideri o sublimarli.

Sotto la luce bianca di riflettori di scena e di torce che sembrano illuminare il loro buio interiore i performer mettono a nudo la propria anima, svelano una inaspettata voglia di tenerezza, acquistano la consapevolezza della propria limitatezza. Quell’essere soli, imperfetti e sospesi, li porta a cercarsi per completarsi, scegliendo un compagno di vita che possa risolvere ingenuamente l’inevitabile incompiutezza. Perché l’uomo altro non è che un’arancia tagliata a metà, i cui i pezzi separati alla nascita tendono a tornare insieme e riunirsi e, forse con un po’ di imbarazzo ma sicuramente con rinnovata complicità, si cerca sempre quella parte che combacia.

Lo spettacolo rivela di continuo il lungo viaggio dell’uomo dentro il suo inconscio: un viaggio veicolato dal sonno e dal sogno (quali migliori custodi per far esprimere liberamente il desiderio, senza censure o limitazioni).  Ma il sogno è anche il territorio delle paure che si esprimono e riflettono nelle fisicità dei danzatori, nel caos dei loro movimenti e nelle loro irruenti ribellioni, mentre un Vandekeybus solitario partecipa di volta in volta alla danza corale come l’unico animale solitario che mantiene la sua indipendenza, senza paura di percorrere la propria strada.

In Spite of Wishing and Wanting può sicuramente definirsi uno spettacolo che viaggia nel tempo; perché, come lo stesso Vandekeybus afferma, “cambiamo pur rimanendo gli stessi e rimaniamo gli stessi pur cambiando”.

Giannarita Martino

Tw @giannarita

15/10/2016

 

Foto: Ultima Vez, In Spite of Wishing and Wanting Revival di Wim Vandekeybus, ph. Danny Willems

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2 Commenti

  1. ericabravini

    Let’s Dance con Jorge Jauregui Allue nella poetica di Wim Vandekeybus
    Due ore di concentrato ed incisivo lavoro con l’ assistente alla coreografia di Ultima Vez, Jorge Jauregui Allue, che il 12 ottobre 2016, in occasione dei laboratori Let’s Dance organizzati dal Romaeuropa Festival, ci ha dato un breve assaggio della singolare tecnica e poetica di Wim Vandekeybus.
    Da subito veniamo introdotti ai principi fondamentali della danza del coreografo fiammingo, a percepire e a comprendere il movimento e non ad eseguirlo semplicemente. In seguito ad una serie di esercizi di riscaldamento e di potenziamento, inizia la ricerca vera e propria: il danzatore ci spiega che tutto ciò che noi creiamo, in danza, è legato inevitabilmente ad una forma, ma questa forma può essere piena di sensazioni o completamente vuota di significato, ed è questo che fa la differenza.
    L’obiettivo è quindi quello di trovare l’impulso base che genera il movimento, il quale non è fine a sé stesso ma causa e conseguenza di un altro movimento; il risultato è una danza fluida e corposa, nella quale non sono intellegibili i passi o le pose statiche, una danza che scorre delicata tra cadute e salti apparentemente senza peso. Il movimento non è il “passo” ma è l’impulso che lo genera, e questo principio va ricercato innanzitutto nella direzione dello sguardo. Infatti gli occhi e il loro volgersi nello spazio aiutano e guidano il movimento ma sono anche essi stessi il movimento, spiega J.J. Allue. Anche gli occhi intervengono in un’altra ricerca, quella del limite: porsi come obiettivo il limite irraggiungibile, in uno sguardo, in una torsione, in un disequilibrio, e rompere improvvisamente questa tensione generando l’impulso che fa nascere il movimento seguente. Un limite che va indagato continuamente e fino alla fine; anche se siamo arrivati al nostro limite fisico, la ricerca continua verso un ipotetico oltre, nonostante il corpo non riesca effettivamente più a muoversi.
    Una danza costruita sull’impulso di due costanti, la caduta e il rimbalzo: “Fall” e “Rebound” sono il senso stesso dello stile di Vandekeybus, sono l’origine e l’impulso di ogni movimento e, costruiti in alternanza, rendono la composizione coreografica un flusso perenne, senza interruzioni o cambi di tono. Cerchiamo, così, di sentire tutto il nostro corpo vivo, gli occhi, le dita delle mani, e non di danzare controllando il corpo e i passi. Non c’è apparente controllo nella danza di Wim Vandekeybus, né forza fisica visibile nei muscoli impegnati nel movimento; esso non nasce dalla contrazione muscolare bensì da impulsi, come cadute o rimbalzi, che siano però, veri, sinceri e vivi.

    Erica Bravini
    Danzaeffebi meets #REf16

    Ott 15, 2016 @ 12:20:00

  2. Lorenzo Vanini

    Wim Vandekeybus presenta al Festival Romaeuropa In Spite Wishing and Wanting Revival uno spettacolo presentato per la prima volta nel 1999 al Teatro Comunale di Ferrara e riportato in scena sul palco del Teatro Argentina.

    Dire che “lo spettacolo si apre” non è propriamente corretto. In questo caso, infatti, lo spettatore entrando in sala si ritrova già ad assistere all’atto performativo. I danzatori si muovono nel buio del retro-palco, lasciando percepire qualche rumore o sagoma indefiniti, installando già un atmosfera, un paesaggio anche se non pienamente chiari.
    Finalmente la luce in sala si affievolisce e il paesaggio prende forma grazie alle luci, finemente studiate e soprattutto agli eccellenti interpreti, che catapultano lo spettatore in un’atmosfera onirica, ma allo stesso tempo molto quotidiana, con elementi e personaggi di tutti i giorni. Ogni cosa negli spettacoli di Vandekeybus ha un senso, nulla è messo sul palco per caso: Testo, Danza e Cinema sono parte integrante di In the Spite of Wishing and Wanting e non elementi separati fra loro.
    Un’altra componete importante è sicuramente il forte simbolismo, probabilmente ereditato dall’esperienza con Jan Fabre, che però non rinchiude lo spettatore in una sorta di universo allegorico a senso unico. Gli oggetti, le luci e gli interpreti, nei lavori del coreografo belga, raccontano davvero qualcosa e possono avere più interpretazioni, come le luci di Caravaggio o i personaggi di Fellini.
    Quest’ultimo, in particolare, è stato una vera e propria ispirazione per Vandekeybus, che, come lui stesso afferma, ha voluto omaggiare utilizzando lingua e interpreti italiani all’interno del film The Last Words, il cortometraggio surrealista presente all’interno dello spettacolo. La pellicola cinematografica e solo uno dei tanti mezzi utilizzati dal coreografo nella sua analisi (ancora attuale nonostante i 17 anni passati) della figura dell’uomo, con le sue paure, le sue debolezze e la sua animalità.
    L’animalità è sicuramente la caratteristica che colpisce di più della danza dell’artista belga, gli interpreti utilizzano il suolo quasi come un trampolino in una serie di perdite di equilibrio, cadute, salti e rimbalzi, dove ogni danzatore ha in realtà pieno controllo del movimento, grazie anche al forte ascolto del corpo e soprattutto del gruppo, fatto di tanti occhi e orecchie, ma soprattutto da un’ottima coscienza dello spazio.

    Posso dunque concludere dicendo che per me gli spettacoli di Wim Vandekeybus sono un’esperienza per la quale molti dovrebbero passare, dove l’unica cosa prevedibile è proprio l’imprevedibilità.

    Lorenzo Vanini
    Danzaeffebi meets #REf16

    Ott 16, 2016 @ 18:27:46

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