La recensione

Il ritorno di Sidi Larbi Cherkaoui al Romaeuropa Festival 2017: Fractus V conquista il pubblico romano

È andato in scena a Roma lo spettacolo Fractus V, che segna il ritorno dell’artista belga Sidi Larbi Cherkaoui e della sua compagnia Eastman al Romaeuropa Festival. Atteso e apprezzato dal pubblico della capitale, Cherkaoui registra ancora una volta un grande successo con un’opera coreograficamente e filosoficamente intensa, che trae ispirazione dalle teorie del linguista americano Noam Chomsky. In scena, l’incontro tra stili e artisti (eccellenti) di diversa provenienza geografica e culturale: uno spettacolo coinvolgente nel segno del miglior Cherkaoui, osservatore attento della società contemporanea, indagatore di diversità e identità, creatore di inediti legami.

In scena lo scorso 26 settembre 2017 (e in replica il 27) all’Auditorium Conciliazione di Roma con Fractus V, il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui era attesissimo dal Romaeuropa, festival che ne ha accompagnato i primi passi e celebrato i ritorni, ma soprattutto dal pubblico della Capitale, legato da sempre all’artista belga da un tacito patto di fiducia (consolidato anche dalla fortunata direzione del Festival Equilibrio tra il 2010 e il 2015). Costruttore di architetture in movimento, regista di nuovi riti universali, Sidi Larbi Cherkaoui è del resto uno dei principali rappresentanti della coreografia contemporanea, al cui linguaggio ha affidato la responsabilità di tradurre visioni e filosofie di vita.

Già partecipe di una doppia cultura per radici marocchine e vita belga, Sidi Larbi Cherkaoui interpreta in scena la natura multilingue di un mondo destinato a confrontarsi con le proprie diversità. Ma a chi crede che l’incontro tra culture possa risolversi nella fusione degli ‘identici’, Monsieur Cherkaoui riserva contraccolpi di riflessione, posizionandosi in equilibrio lungo i confini della differenza, nocciolo duro di identità ancora in grado di realizzare il perfetto incastro con l’Altro. È dal contrasto tra la difesa dei propri contorni e il desiderio stringente del contatto che nasce l’ipnotica tensione della sua opera: un continuo atto di attrazione e distacco, conflitto e ricongiungimento.

Il fascino delle produzioni di Eastman (compagnia fondata nel 2010 e ancora condotta da Sidi Larbi Cherkaoui nonostante il parallelo incarico di direttore artistico del Royal Ballet Flanders) è nella capacità del coreografo di accedere ad un livello di comunicazione extralinguistica che pare raggiungere uno strato profondo e ‘universale’ di comprensione, al di là di idiomi e prospettive. Non è un caso che in molte delle sue creazioni si mescolino artisti e stili geograficamente distanti, note di identità lontane che trovano nella danza l’armonia di un racconto comune. Pensiamo a Puz/zle (2012) o a genesis (2013), veri e propri riti d’unione tra volti e fisionomie, uomini e luoghi (nel video un estratto da Puz/zle).

Fractus V segna l’incontro di Sidi Larbi Cherkaoui (in questo caso presente in scena anche come interprete) con Noam Chomsky, linguista e filosofo americano, al cui genio dobbiamo lo sviluppo della grammatica generativa e lo svelamento dei legami tra informazione e potere, pubblicità e consenso (in particolare nell’opera del 1988 Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media scritta con Edward S. Herman). Un incontro evidentemente destinato a compiersi sul piano della ‘lingua’, quella in sillabe e fonemi di Chomsky e quella in gesti e dinamiche di Cherkaoui: una grammatica comune, composta da strati profondi e superficiali, strutture innate e universali, in grado di generare imprevedibili costrutti e interpretare invisibili segni.

Le sedie vuote lungo il fondale, affiancate da strumenti musicali d’oriente e occidente, sembrano introdurre un palo flamenco, già preannuncio di danze nomadi in viaggio tra i confini del mondo. La frattura del titolo è per Sidi Larbi Cherkaoui il paradosso e nello stesso tempo la condizione necessaria dell’unione: può rompersi e ricostruirsi solo ciò che è già ‘uno’ e non ci sarebbe identità alcuna senza il superamento della frizione interiore tra i mille volti dell’io.

Cinque uomini in jeans cavalcano in scena le onde di un presente tempestoso contando sulle vele fragili di una barca senza timone: cloni di un’umanità assuefatta all’informazione subliminale, confondono i propri linguaggi scoprendosi strumenti e vittime di messaggi altrui. Identità sfumate, si riapproprieranno di sé proprio in quella diversità negata dalle ragioni omologanti del potere.

La scenografia mobile, composta da pannelli triangolari bianchi è ancora una volta protagonista di un universo scenico carico di simboli, in cui si mescolano i richiami al pensiero di Chomsky e alle visioni di Cherkaoui: la manipolazione dell’informazione diventa qui la continua ricomposizione del suolo e delle pareti di un mondo incerto, in cui l’”effetto domino” schiaccia l’uomo ignaro della catena degli eventi; le lusinghe della pubblicità e dei canali di comunicazione virtuale si traducono negli ancheggiamenti di una danza ammiccante che intrattiene gli sguardi e distoglie le menti dalle deviazioni della vita reale.

Sorprende, come sempre, l’abilità di Sidi Larbi Cherkaoui di comporre strutture coreografiche di millimetrica precisione e misura, pur nella giustapposizione di stili e dinamiche estremamente distanti (flamenco, urban dance, floor work, insieme al caratteristico movimento di Cherkaoui, contemporaneamente energico e quieto, fluido e vibrante, potente e leggero, tra contorsionismi e slittamenti silenziosi). Nell’alternanza di atmosfere placide e struggenti, ironiche e dure, la compiutezza del lavoro si rivela infine nella riuscita fusione delle diverse suggestioni stilistiche e nella chiara corrispondenza tra forme e significati.

Pur in linea con un segno creativo riconoscibile, troviamo in Fractus V gli esiti coreografici del miglior Cherkaoui, osservatore attento della società contemporanea, indagatore scrupoloso di diversità e identità, creatore imprevedibile di inediti legami. Un’opera magistralmente condotta da cinque interpreti eccellenti provenienti da diverse aree geografiche e culturali (Germania, USA, Francia, Spagna, Belgio, Marocco): Dimitri Jourde, Johnny Lloyd, Fabian Thomé, Patrick Williams Seebacher (TwoFace) e lo stesso Sidi Larbi Cherkaoui. “Sono tutti miei amici, lo sono sempre stati – spiega il coreografo – persone che conosco da molto tempo e che desideravo mettere insieme in uno stesso spettacolo per mescolarne i vocabolari. In fondo l’arte è vita e la vita è sempre incontro. Sono stato fortemente attratto e profondamente influenzato dalla pratica hip hop di Patrick Williams e dalla tecnica di Johnny Lloyd e Fabian Thomé. Ero certo che saremmo riusciti a procedere in modo unitario nonostante le differenze di lingua e linguaggi, background culturali, musicali, coreografici… e così è stato. Abbiamo lavorato insieme e in modo organico. Uno di noi, io, si è assunto la responsabilità del prodotto finale (della performance in questo caso) e tutti gli altri hanno offerto il proprio contributo. Così si dovrebbe riuscire a fare anche fuori dall’arte, anche in democrazia e in politica. Siamo tutti sulla stessa barca e collaborare ci permette di rimanere a galla”.

Con loro, Sidi Larbi riscopre e modella se stesso, adattando il proprio segno al linguaggio dei nuovi interlocutori: curve continue si interrompono tra le spigolosità e le frenesie dello zapateado flamenco, incontrano sincronie e sinuosità orientali e resistono alle durezze della urban dance, accompagnati dai suoni vicinissimi di popolazioni lontane (in scena, i musicisti Shogo Yoshii, Woojae Park, Soumik Datta, Kaspy N’dia).

Il religioso silenzio con cui il pubblico dell’Auditorium ha assistito a Fractus V è quello inconsueto di un evento collettivo eppure intimo, condiviso eppure profondamente interiore. Non sorprende dunque l’esplosione di applausi che al termine dello spettacolo ha richiamato in scena danzatori e musicisti, confermando il successo dell’opera di Sidi Larbi Cherkaoui e dei suoi straordinari interpreti.

Lula Abicca

30/09/2017

Foto: 1. Fractus V di Sidi Larbi Cherkaoui, ph. Filip Van Roe;

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3 Commenti

  1. SalottoPapale

    E la musica live dello spettacolo? So che non ha senso estrapolare il commento sonoro dal contesto della performance, ma vorrei sottolineare il contributo fondamentale degli musicisti.
    Per iniziare, Shogo Yoshii che si esprime con il taiko – tamburo giapponese che profuma di tempio shintoista – usa percussioni di metallo e suona il flauto, mescolando tecniche di improvvisazione con canti folclorici giapponesi. Non solo. Shogo Yoshii danza utilizzando il corpo come strumento musicale, coinvolgendo gli altri danzatori in questo ipnotico body percussion. Che eleganza! Da abbinare al suono del cordofono coreano, il geomungo, suonato con il plettro o sfiorato con l’arco da Woojae Park, che crea uno straniamento grazie all’uso di scale musicali orientali, occidentali e blues. Woojae Park si cimenta anche al pianoforte, con nenie minimaliste di impatto a fare da sfondo sonoro per i danzatori.
    In questo mix di culture musicali c’è anche il sarod – una sorta di chitarra indiana – di Soumik Datta che pure canta alternandosi o duettando con il congolese Kaspy N’dia. Un collettivo di artisti notevole, un esempio di condivisione artistica e di espressione di identità geografiche che si fondono. Bello assai.
    Ippolita Papale

    Set 30, 2017 @ 13:07:30

  2. dimuziotiziano

    ROMAEUROPA FESTIVAL 2017
    Fractus V
    Auditorium Conciliazione, Roma
    26 settembre 2017

    Da sempre attratto dalle differenze culturali, dalla religione e dalle teorie evoluzionistiche, il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui trova da essi, ancora una volta, il punto di partenza per dar forma alle sue visioni e sviluppare il proprio lavoro.

    Nato ad Anversa, classe 1976, Cherkaoui è maturato attraverso l’esperienza di confine tra due civiltà, quella belga fiamminga della madre e quella paterna di origine marocchina: è qui che per il coreografo s’insinua la prima frattura, quella identificabile con la separazione e la crisi identitaria. «In molti – sottolinea lo stesso Cherkaoui – mi chiedono se mi senta più marocchino o più belga, ma sono sia l’uno che l’altro. È quando ti viene chiesto di scegliere tra le diverse identità culturali che ti appartengono, che senti in te una rottura».

    Anche in Fractus V, ispirato agli scritti e al pensiero di Noam Chomsky, le idee si trasformano in un veicolo fluido ed efficace attraverso cui la potenza e l’universalità del linguaggio del corpo – pur nel rispetto della varietà di stile e della singolarità di origine dei performer – ha la possibilità di concretarsi in immagini.

    «In Fractus V lavoro con persone provenienti da diverse aree geografiche e culturali. Sono tutti miei amici, lo sono sempre stati, persone che conosco da molto tempo e che desideravo mettere insieme in uno stesso spettacolo. In fondo l’arte è vita e la vita è sempre incontro».

    Come ha spiegato lo stesso autore, la coreografia presentata all’Auditorium Conciliazione in occasione della 32° edizione del Romaeuropa Festival, è un lavoro volontariamente al maschile: i nove protagonisti sono tutti uomini, danzatori e musicisti. Tuttavia, lo spettatore non può non cogliere l’importante accento che, in alcuni momenti, è posto su movimenti sensuali – che comunemente sono associati a una fisicità femminile – in cui i corpi si dilatano nello spazio e si fondono quasi a voler ricordare che non esistono confini o margini oltre i quali non si possa esplorare, oltre i quali non si possa stabilire un contatto con una dimensione “altra”, aldilà di ogni genere prestabilito.

    Fractus V abbraccia anche un’entusiasmante varietà di stili – basti ricordare, non per semplice proposito di elencazione, il suo personalissimo percorso, la sua formazione eclettica e la sua apertura a ogni nuova esperienza: dall’hip hop al modern jazz, passando per la tecnica contemporanea, la storia della danza, il ritmo e la sociologia senza dimenticare la sua formazione teatrale che deve molto alla scuola di Anne Teresa de Keersmaeker dove ebbe la possibilità di avvicinarsi al lavoro d’innovatori come William Forsythe, Pina Bausch e Trisha Brown – e, come spesso succede nell’opera di Cherkoaui, le sue composizioni offrono il massimo dell’intensità emotiva proprio nel momento in cui questi stili s’incontrano.

    In Fractus V, il pubblico trae beneficio da tale unione all’inizio e alla fine della performance, quando tutto il cast si unisce in una polifonia di voci e vibrazioni. «Una meravigliosa treccia di suono che fonde influenze del Medio Oriente a passi selvaggiamente estatici» che, come un’espressione di vigorosa unità, si propaga attraverso il lavoro fornendo un contesto particolarissimo ai frammenti dei testi di Chomsky, deliberatamente accostati a un testo di Alain Watts. Quest’ultimo si pone – come afferma lo stesso coreografo – quasi agli antipodi del pensatore americano, anche se le sue teorie risultano ugualmente «importanti e necessarie oggi».

    La tesi di Chomsky è che viviamo in un mondo dove il linguaggio e le informazioni sono manipolate dai governi per diventare strumenti di controllo politico: bisogna preservare e difendere la libertà di pensiero attraverso la resistenza collettiva e, per Cherkoaui, questo principio di collaborazione deve esistere quale forza trainante della coreografia, espressa nell’opera attraverso immagini di meravigliosa ingegnosità e attraverso lo scambio tra le forme.

    Ecco che vediamo, in uno spazio continuamente costruito e demolito grazie a pannelli triangolari, svilupparsi e accostarsi magistralmente evoluzioni coreografiche che spaziano dalla breakdance all’hip hop, dalla contact improvvisation fino a toccare vertici di assoluta eleganza e passione con il flamenco.

    Lo stesso Sidi Larbi Cherkaoui esegue un duetto con il ballerino Fabian Thomé. Il suo corpo d’acciaio ma, contemporaneamente, morbido e fluido attraversa l’effimera passerella destinata a dissolversi dietro i loro movimenti: è come se continuamente la terra mancasse sotto i piedi, come se tutto fosse destinato a rigenerarsi incessantemente e unitamente all’arte che – dice l’autore – «non dovrebbe mai essere un atto di mera riproduzione».

    Tutt’intorno, la danza si dispiega combinando blackflips e movimenti circensi intanto che i musicisti donano la loro brillante fusione di jazz e rimi percussivi orientali avvolgendo il pubblico in un tempo – spazio che sembra fondersi e svilupparsi senza soluzione di continuità: settantacinque minuti che potrebbero essere tranquillamente un secondo o, al contrario, un tempo illimitato di suggestioni, sentimenti contrastanti e narrazione di una storia.

    Sì, perché c’è anche una cupa oscillazione di violenza all’interno di questa comunità di uomini che si trovano a scontrarsi e a lottare a colpi – precisissimi – di arma da fuoco. «C’è qualcosa di molto importante – spiega ancora Cherkaoui – che Chomsky ci dice con la sua opera: tutti i sistemi che utilizziamo per dare vita ad una società (sia essa una monarchia, democrazia o qualunque altro sistema) produrranno sempre delle vittime. È il sistema stesso a creare queste vittime, nel momento in cui c’è sempre qualcuno che se ne ritroverà fuori».

    Da sempre, come per i migliori lavori di Cherkaoui, anche Fractus V può essere considerato «un orologio emozionale ed espansivo, grande nelle sue potenzialità e potente con le sue idee». Gli applausi a scena aperta da parte di un pubblico entusiasta che, più di una volta, ha permesso ai protagonisti di uscire sulla scena, ne sono la più autentica conferma.

    Tiziano Di Muzio
    Danzaeffebi meet #REf17

    Set 30, 2017 @ 17:40:21

  3. mariamarangolo

    Fractus V, l’ultimo lavoro del coreografo marocchino belga Sidi Larbi Cherkaoui, è un’opera che ho amato subito. Si è sedimentata e ha saputo stimolare la mia sensibilità, e questo accade quando la necessità espressiva e autonoma degli artisti sa incontrare un bisogno collettivo.

    Di cosa tratta, lo spettacolo ce lo svela lentamente.
    È però subito chiaro il metodo di approfondimento e di ricerca utilizzato.

    Nell’incontro a fine spettacolo, Sidi Larbi spiega che la sua opera è frutto di un lavoro in cui le “cose” (le dinamiche del corpo, le espressioni vocali, l’uso degli strumenti) si imparano perché ci si incontra fisicamente e ci si insegna l’un l’altro. Non è difficile immaginare i componenti della compagnia intorno ad un tavolo, a raccontarsi qualcosa che con la danza apparentemente c’entra ben poco. 

    Sulla scena interagiscono 5 danzatori, 4 musicisti e diversi strumenti inusuali, tutti di stile e provenienza geografica diversissima – sono coinvolti America, Asia, Africa.

    Le tematiche sviluppate sulla scena traggono spunto da alcuni passi dell’opera di Noam Chomsky e da riflessioni di Alan Watts. Cosa hanno in comune il documentario di Netflix su Chomsky, una delle scene cult in slow motion di Kill Bill, 1984 di George Orwell e la nuova funzione di traduzione istantanea di google da tutte le lingue del mondo? Tutto e niente.
    Si affronta il controllo dell’informazione, l’universo estetico pulp che mescola generi, culture e violenza (quella di cui siamo sommersi e a cui siamo insensibili), internet e la possibilità di connettersi con l’altra parte del mondo parlando lingue diverse ma avendo gli stessi codici globali.

    Queste scene, che sono espressione di una voce originale, riescono a proporci concetti semplici e abusati in modo chiaro e immediato, solo perché sono stati digeriti e rielaborati nel tempo e nello spazio della ricerca e poi rivisitati e ripensati per la performance. 

    L’azione si sviluppa in una continua alternanza di contrazione e rilassamento, nella quale corpi, voci e strumenti si accordano tra loro dando vita a un’espressività facile da riconoscere quanto difficile da definire. Allo stesso modo, sulla scena vediamo situazioni che, pur se immediatamente riconoscibili, sfuggono alla catalogazione immediata e facile da trend topics.
    Non siamo abituati a quella qualità di movimento perché è inedita, quelle sonorità non sono nei nostri canoni di riferimento perché non si riesce a ricostruirne la derivazione e il significato. La sensazione trasmessa dallo stile inscenato è insieme di straniamento e di immedesimazione. Cherkaoui con il solo uso dei corpi, delle voci e degli strumenti ci offre uno spettacolo senza trucchi, che non ha paura dei vuoti ma che non se ne vanta.

    La compagnia Eastman non si limita a porsi obiettivi di natura estetica, concettuale o tecnica, ciascuno autonomo dall’altro. L’opera trova una sintassi propria e il risultato è convincente solo se si è davvero disposti a subire il fascino della diversità, ad abbandonarsi ad una sensualità differente e conturbante, a “fratturare” la propria identità e a ricomporla senza paura di perdersi.

    Cherkaoui non mette in scena la ricerca stessa, come spesso siamo abituati a vedere nella danza contemporanea oggi – tutta una sperimentazione laboratoriale, un work in progress, un’estetizzazione dei messaggi, una ricerca della dinamica del movimento – ma si arrischia nell’interpretazione. 
    Il ritorno alle origini della sapienza di ogni cultura coinvolta nella performance è condotto con la spontaneità del curioso, la profondità dell’intellettuale, e la sensibilità dell’artista engagé. 

    È l’incontro con la diversità, nuda e cruda, il soggetto di questo spettacolo.
    Con tutto l’imbarazzo, lo slancio, gli arresti e i contraccolpi che l’incontro può provocare.
    La dinamica “alla Cherkaoui” finisce per trascinare con sé perché muove dalla ricerca pura, che non ha preconcetti, la ricerca che scava nei luoghi più intimi senza soprassedere. Luoghi a volte molto bui e a volte estremamente luminosi, i cui confini finiamo per dimenticare.

    Maria Marangolo
    Danzaeffebi meet #REf17

    Ott 01, 2017 @ 14:41:05

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