La recensione

RULE OF THREE a REf17: il talento indisciplinato di Jan Martens torna al Romaeuropa festival

È andato in scena al teatro Vascello di Roma il 22-23 novembre il nuovo lavoro di Jan Martens, ospite di Romaeuropa festival per il terzo anno consecutivo. Con RULE OF THREE l’artista esplora la triade quale parametro costruttivo che combina gli elementi drammaturgici in scena.

Ospite assiduo di Romaeuropa, anche quest’anno Jan Martens è tornato a REf17 con RULE OF THREE per offrire il suo indocile talento al pubblico romano. Già al festival con ODE TO THE ATTEMPT nel 2015 e nel 2016 con THE DOG DAYS ARE OVER, il coreografo belga si trova per la prima volta quest’anno a lavorare con la musica dal vivo di NAH, produttore e batterista americano, e i sui disinvolti intercalari tra punk DIY, noise estremo, avant-jazz e hip hop.

Un’opera che conferma agli spettatori italiani il proseguimento di un percorso destrutturato con questo trentatreenne indomito, conosciuto con l’assolo di ODE TO THE ATTEMPT (a solo for meself). Come in un autoritratto i momenti di vita e di danza dell’artista, contro narcisismi e individualismi dilaganti in corsa verso la subordinazione digitale.

L’anno successivo avviene l’impatto con THE DOG DAYS ARE OVER, lavoro ironico e manipolativo sulla resistenza dei corpi che sceglie il salto come costante di movimento. Un pezzo definito dal suo stesso autore “hardcore”, di difficile sostenimento per il pubblico a causa della pressione fatta sul fisico dei danzatori, senza soluzione di continuità. Ma che è allo stesso tempo un pezzo che diverte, che gioca con le dinamiche e con gli stessi spettatori, sfidandoli alla sopportazione.

RULE OF THREE, andato in scena al teatro Vascello di Roma il 22 e 23 novembre 2017, parte dall’uso del “terzo” come elemento di rottura, guadagno e moltiplicazione. Il numero tre, perfetto, sacro, celebrato in innumerevoli discipline dalla matematica alla filosofia, diventa il parametro costruttivo di questa pièce in cui tre danzatori vestiti di giallo blu e rosso – che non per niente rappresentano i tre colori primari – passano da una scena all’altra esplorando storie brevi e acute.

Così come la regola del 3 nell’arte dello storytelling accresce il coinvolgimento del lettore, facendo in modo che in trio i protagonisti e gli eventi di una storia siano più espressivi, ironici ed efficaci, Jan Martens utilizza i suoi tre interpreti – i già noti Steven Michel e Julien Josse con la portentosa new entry Courtney May Robertson – come pedine del Tetris, incastrandoli con gli altri tre elementi portanti della narrazione: movimento, musica e luce.

In una atmosfera opaca simil nightclub, tra suoni aspri e distorti che a tratti vertono verso atmosfere vibe più morbide o verso trance neo punk, siamo messi di fronte a uno zapping frenetico di visioni autoconsistenti. In un traffico coreografico veloce e regolare, le immagini si susseguono in dinamiche ripetitive e docili, astratte e drammatiche; come in preda a un tormentoso posting su di un social network online ci dissetiamo di figure che trasfigurano racconti brevi, spesso incompiuti.

Quale effetto sulla nostra coscienza di un flusso informativo che agisce da surplus valutativo, senza interruzione di giudizio e senza prudenza interpretativa? Il sottoporsi a input continui, diversi ma simultanei, fa sì che ci abituiamo a processare i dati in modo famelico, smanioso, incostante, senza riuscire più a selezionare cosa è veramente stimolante da cosa non lo è. Una modalità di fruizione vorace che si ripresenta nella rappresentazione di RULE OF THREE e che porta a stressare i corpi (come già fatto in THE DOG DAYS ARE OVER) in un’altalena tra ragione e sentimento. Senza mai abbandonare un’estetica geometrica che porta a incasellare ogni minimo gesto, si sfruttano impronte sonore sintoniche alle sequenze ripetitive. Ma in questo lavoro i danzatori sono molto più liberi di creare il loro personale percorso improvvisativo tra strutture coreografiche variabili, e passano speditamente e con naturalezza da tracce di 15 secondi a scene di 15 minuti.

Finché, in un silenzio tagliente che risulta più assordante della batteria prima utilizzata, si giunge al clou dello show: la triade adesso nuda, sotto una luce brillante, non si risparmia al suo pubblico. I corpi sono all’istante architetture umane che si incastrano l’uno con l’altro congelati sotto i riflettori; i volti sono maschere espressive che non trapelano emozione. È un susseguirsi di fare e disfare, in un inizio che prelude sempre ad una fine ed una fine che anticipa l’inizio. E a tratti lo spettatore ha il dubbio che il meccanismo sia portato ad un libitum mai a termine, mentre i corpi continuano ad esprimere il loro bisogno di essere solo un pezzo del puzzle.

Giannarita Martino

Twitter @giannarita

05/12/2017

Foto: RULE OF THREE di Jan Martens, ph. Piero Tauro.

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Un Commento

  1. mariamarangolo

    Il coreografo e performer belga Jan Martens, in un’intervista di Chiara Pirri a presentazione dello spettacolo Rule of Three, spiega a cosa fa riferimento il numero tre: sono tre i danzatori, tre gli elementi cardine della performance (movimento/musica/luce), e tre i protagonisti o gli eventi che rendono più efficace una narrazione.
    Credo che Martens riesca ad inglobare progressivamente il quarto elemento, lo spettatore, l’unico in fondo senza il quale la performance non avrebbe senso. 

    Ciascuno con i propri tempi, ognuno senza altra scelta se non quella dell’abbandono della sala, siamo stati sfidati, messi sotto scacco, ipnotizzati, impauriti, sfiniti e infine spogliati da Rule of Three. È così che, senza più armi né energie, ce ne siamo tornati a casa senza sapere di essere passati attraverso una sessione intensiva di allenamento.
    Lo spettatore all’ingresso viene munito di tappi antirumore, qualcosa suggerisce che potrebbe essere troppo forte quello che sentiremo. Non solo infatti ne è necessario l’uso per rendere piacevole all’udito la straordinaria live performance punk-noise/hip hop/avant jazz del percussionista NAH, ma si sente la necessità, almeno all’inizio, di attutire un pò tutti sensi e abituarsi lentamente al training della performance. Il disegno luci di Jan Fedinger è in perfetto sync con la ritmica incalzante ma dalle pause inaspettate, mentre i tre corpi in gioco cominciano una marcia incessante che gli farà collezionare chilometri e chilometri. 

    Si tratta di due uomini e una donna che indossano tre colori primari in sportwear acetato anni ’80. Sono dei corpi ginnici, giovani, proporzionati. E si muovono seguendo lo stesso tempo, quello musicale, ma ciascuno una differente combinazione base.
    Martens innesca dal principio una dinamica da tapis-rouland a causa della quale i corpi e la musica non possono e non vogliono fermarsi mai. A questo moto perpetuo è però data la facoltà delle varianti, che si impongono anch’esse ritmicamente allo scadere di ogni ciclo breve, dai tempi di attenzione televisivi. É sufficiente che ciascuna sezione sia abbastanza lunga da stupire ma abbastanza breve da non stancare. Questo sottile equilibrio permette la magia di questa macchina che si autorigenera.
    Se, come espresso dallo stesso Martens, sulla scena si vuole esprimere con questi passaggi di sezioni l’abitudine contemporanea della mente ad essere continuamente sballottata da un argomento all’altro con gli stimoli trasmessi da internet e dai media d’informazione, l’assetto complessivo della performance riesce ad abituarci alla ripetizione ossessiva degli stessi movimenti stupendoci per la loro inalterata qualità nel tempo. 
Si ha l’impressione che le capacità propriocettive dei tre corpi siano state affinate per resistere all’infinito. Li si guarda negli occhi, mentre loro si muovono come in un pendolo di Newton, e si capisce che inspiegabilmente al quarantesimo giro i loro sguardi non perdono l’intenzione, la messa a fuoco, la lucidità. Si è di fatto davanti ad una sorta di controsenso. Se infatti il messaggio sembrerebbe essere: le nostre menti, nel mondo contemporaneo, sono sottoposte a grande elasticità perché perdano di profondità/concentrazione/consapevolezza come questi corpi che passano da una sequenza di movimenti all’altra senza sosta e senza vera coscienza di ciò che questo cambiamento comporta, è pur vero che tanto più essi resistono in qualità fisica a questo continuo cambiamento, tanto ciò dimostra una lucidità psicologica non indifferente. Davanti agli occhi dello spettatore, questi corpi sono capaci di provare che, come in una pratica orientale millenaria, essi possono essere spinti al limite della resistenza e della reiterazione solo se posseggono una consapevolezza mentale molto profonda.
    In una sorta di transfert, ciò che è messo in scena è lo stesso esercizio che si richiede allo spettatore: concentrarsi, dapprima vagare con la mente – come all’inizio di un esercizio meditativo – poi stabilizzarsi nella contemplazione di quel movimento: scandito da cambi di direzione, cambi di movimenti, cambi di musica, cambi di emotività. E resistere. Ma l’unica via per resistere è proprio quella di approfondire: cercare un senso proprio, abbandonarsi al moto, ammirare la bellezza di ogni gesto. Insomma, combattere proprio quell’imbambolamento a cui siamo sottoposti, trovare una chiave di volta attraverso l’esercizio di una qualche consapevolezza. E le cose che vediamo stavolta sono vere. Non passano attraverso lo schermo, sono vive e sudano. Moltissimo.
    Punta di diamante della performance, insieme al musicista NAH, è certamente la danzatrice Courtney May Robertson, perfetta nella sua tuta gialla (in omaggio a Black Mamba forse). Questa danzatrice aliena non può che essere musa di Martens. La Robertson è una donna in miniatura, proporzionata, dalla carnagione eterea e dall’espressività enigmatica e conturbante. Il suo viso, a tratti attraversato da un sorriso infantile, insospettisce perché appartiene ad un corpo minuto ma energico e perfezionista. È lei a possedere la chiave di volta della macchina in scena, che viene definitivamente scardinata da un assolo entusiasmante per intensità espressiva e dinamica. In quel momento abbiamo la contezza del range emotivo che stiamo sperimentando, che arriva al terrore puro, ancor più perché succede inaspettatamente. Il carisma di questa performer è tanto straniante quanto conosciuto, e ci lascia interdetti perché in qualche modo riconosciamo qualcosa di terribilmente familiare in lei. 
    Ad un certo punto non ci si rende conto che si è proprio alla fine del crescendo, e il moto si arresta, insieme al ritmo. 
    Resta un rumore bianco, appena udibile, sovrastato dalle tre respirazioni affannose dei danzatori. Questi meccanismi a forma di corpi si disinnescano, e rimangono tre persone. 
    Non ce n’eravamo tanto accorti, che potessero essere come noi, ma Martens ce lo spiega. E li fa spogliare, completamente, mentre bevono da bottigliette di plastica e cercano di rallentare il respiro e di asciugare il sudore. È come una radiografia al cervello, quei corpi sono le nostre menti: sono sfiniti, madidi, hanno terminato il loro compito, e il silenzio li riempie. Quasi in modo chirurgico, ciascuno di essi cerca l’altro senza desiderio, per solo amore di contatto. Contatto fra corpi veri, bagnati, arrossati nei punti in cui si toccano, sporchi per le superfici su cui poggiano. Ancora una volta il tempo assume un ruolo intransigente e il pubblico è costretto a fare i conti con quest’ultima estenuante fase. Qualcuno si alza ed esce, altri provano ad applaudire per mettere fine all’esercizio a cui sono sottoposti, ma i corpi eseguono con calma le pose che ci sono dovute. Infine, dopo essersi rivestiti, prendono gli applausi che meritano.
    Maria Marangolo
    Danzaeffebi meets REf17

    Dic 06, 2017 @ 00:30:09

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