L'intervista

Temporaneo Tempobeat e i lavori di Ariella Vidach: il corpo come dispositivo della scena, la performance come evento di costruzione collettiva.

Nella rassegna romana de Il teatro che danza, lo spettacolo Temporaneo Tempobeat ha portato in scena danza contemporanea, tecnologia mobile e beat boxing. Intervista alla sua produttrice e coreografa Ariella Vidach, fondatrice di AiEP interactive dance company.

Una performance estemporanea, elaborata in tempo reale, dove la relazione con l’altro serve a costruire tessuto empatico narrativo. Tutto questo è Temporaneo Tempobeat della compagnia AiEP, portato in scena al Teatro India di Roma lo scorso 14 e 15 luglio 2017 come ultimo appuntamento estivo della rassegna Il teatro che danza (che riprenderà a settembre), dopo una precedente tappa milanese il 5 luglio per l’Estate Sforzesca.

Con la regia del videoartista Claudio Prati e la coreografia di Ariella Vidach, Temporaneo Tempobeat si focalizza sul rapporto movimento-suono in una ricerca collettiva di cinque interpreti che sono allo stesso tempo autori di azioni ed elaborazioni vocali mediante la tecnica del beat-boxing. Con l’ausilio di una tecnologia mobile, i ballerini riproducono con la bocca e la voce i suoni della batteria e di altri strumenti, creando tracce sonore su cui alternano gli elementi performativi. Ne risulta un happening collaborativo che permette lo scambio continuo di ruoli tra i danzatori: ciascuno è chiamato a una ricerca creativa che serve ad attribuire il senso ai propri gesti, relazionandosi con lo spazio fisico circostante e con l’altro da se’. Si sperimentano così interazioni, situazioni, movimenti.

In questo contesto la danza si fonde in un tutt’uno con la tecnologia; una station multimediale adattata ad hoc per le esigenze performative viene trasformata in elemento scenografico sul palco, per adattarsi ogni volta alle sequenze coreografiche.

 

Ariella Vidach e Claudio Prati sono i fondatori dell’associazione culturale e compagnia di danza contemporanea AiEP – Avventure in Elicottero Prodotti, che dal 1996 a Milano è una proficua realtà riconosciuta nell’ambito delle nuove tecnologie applicate alle arti performative. Nel corso degli anni l’AiEP ha esplorato l’uso dei media interattivi in un crescendo di complessità: dalle proiezioni video in scena a sensori quasi invisibili indossati dagli interpreti, passando per computer-grafica e la motion capture, che consente la registrazione digitale dei movimenti di un corpo e la successiva elaborazione tramite computer. L’esperienza realizzata ha fatto sì che la relazione tra corpo, coreografia e sistemi interattivi si andasse man mano assottigliando, facendo diventare le interferenze tra arte e tecnologia sempre più raffinate e suggestive.

A partire da Temporaneo Tempobeat, abbiamo approfondito il concept che guida i progetti realizzati in AiEP proprio con la sua autrice, Ariella Vidach.

In Temporaneo Tempobeat abbiamo visto che la musica su cui si muovono i performer è prodotta dalla loro stessa voce. Altresì in altri vostri lavori il corpo assume un significato che va al di là della fisicità: viene cioè impiegato non solo per i movimenti ma anche per la produzione degli effetti sonori che a loro volta condizionano così i movimenti. Come succede in Relais: il suono in scena è creato e gestito dal danzatore tramite oggetti d’uso quotidiano il cui uso è rivisitato. Vengono ad esempio utilizzate bottiglie di plastica attaccate al corpo a mo’ di armatura, fogli di carta accartocciati e sfregati contro un microfono… un approccio questo che permette di amplificare le capacità espressive del performer che in scena non è più solo interprete ma anche autore. Un invito, il vostro, alla scoperta delle potenzialità dell’uso del corpo, oltre le accezioni abituali della danza?

Il corpo per noi è dispositivo della scena. Strumento per l’amplificazione di paesaggi, movimenti e naturalmente anche di suono. È una cassa di risonanza emozionale, fisica, quindi anche acustica: un corpo in espansione, dilatato e amplificato attraverso i suoi vuoti. Uno strumento che si dispone a trasformarsi, a divenire altro da sé, a mostrarsi in condizioni diverse rispetto ai paradigmi abituali e a porsi in ascolto di nuove modalità di esistere e resistere. Le tecniche per educare il corpo si sono evolute negli ultimi decenni, hanno aggiunto nuovi orizzonti alle sue potenzialità espressive. La mia ricerca legata alle tecnologie interattive in relazione alla coreografia ha sicuramente svolto questa funzione: amplificando le possibilità di azione all’interno di un ambiente “aumentato” ha voluto offrire al performer una condizione “fuori dall’ordinario” per sfidare corpo e mente in un’impresa stimolante per i sensi, educativa nel far emergere i limiti dell’uomo e della tecnologia.

Nello specifico di Temporaneo Tempobeat abbiamo lavorato sul concetto di corpo sonoro. Un corpo reattivo alle sollecitazioni poste dalla voce per comporre una mappatura di movimento, una scrittura coreografica corale che dialoghi con suoni alla ricerca di una musicalità del movimento molto neutra, ma estremamente precisa. Il beat/battito è esplorato come elemento trainante, generatore di movimento. I suoni sono così tutti generati dalla voce, registrati e trasformati in tempo reale, sulla scena da una loop station che poi li restituisce in forma seriale e ciclica. La voce si trasforma e acquisisce una qualità fisica, dura, materica meccanica, producendo percussioni.

Mi piace offrire ai danzatori della compagnia occasioni per mettersi alla prova ed imparare qualcosa di più ad ogni nuova produzione. Credo fermamente che l’essere umano abbia un potenziale ancora inesplorato e dicendo questo mi riferisco in particolare alle risorse legate ai sensi e alla percezione. La funzione dell’arte è anche quella di offrire nuovi spunti di osservazione e prospettive del reale per estendere una condizione dell’esistenza altrimenti troppo limitata. Il mondo cambia velocemente e sebbene sia molto critica sugli effetti che l’avvento delle tecnologie sta producendo in tutti gli ambiti del quotidiano ne accetto la sfida a condizione che si mantenga uno sguardo vigile sul presente attraverso l’osservazione la frequentazione, la conoscenza ma soprattutto il senso critico.

 

Qual è quindi il vostro rapporto con la musica?

La musica per noi è un testo. Non sempre usiamo tracce presentate da forme compositive convenzionali. Si tratta piuttosto di una cascata di suoni apparentemente non organizzati. Ci interessa molto lavorare su forme di assemblaggio del suono che si compongono in tempo reale scardinando il modo tradizionale di comporre musica per sviluppare l’idea di un “disegno del suono”. Cerchiamo soluzioni compositive sempre diverse, che avvengano stabilendo logiche di relazione inedite tra i suoni, attraverso la spazializzazione, il volume in senso non tanto acustico, quanto dimensionale e drammaturgico.

Ci interessa confrontarci con la musica in diverse accezioni: come paesaggio, suono, espansione del corpo (quando viene utilizzata attraverso l’uso di tecnologie interattive), ritmo, vibrazione, materia. è proprio nel momento in cui conduciamo il testo musicale su un piano diverso, che per noi il lavoro inizia ad acquisire senso.

L’uso della tecnologia in scena sembra quasi umanizzarla; non siamo più di fronte a freddi strumenti ma a elementi che dialogano costantemente con i performer, dotati di una loro personalità. In HABITdata ad esempio si assiste a un insolito duetto tra una danzatrice e un braccio robotico. Come nasce questo particolare interesse e questa interpretazione delle tecnologie che caratterizza tutte le vostre opere?

Siamo nati artisticamente in un’epoca in cui la tecnologia rappresentava una rivoluzione per i costumi, la società, gli stati dell’essere. Veniamo dall’esperienza newyorkese, dagli studi dei Vasulka e Nam June Paik. Ma a differenza di molti della nostra generazione, ci siamo sempre posti dal punto di vista dell’osservatore e dell’esploratore, con un taglio quasi etnografico sul contemporaneo. Osservazione, registrazione, e poi sperimentazione sui nostri stessi corpi e nuovamente registrazione. Ai tempi lo spirito che ci muoveva era molto diverso. Si trattava di un’epoca in cui la tecnologia era mutazione e trasformazione. Oggi il mondo è cambiato. La tecnologia è assunta nel corpo, non abbiamo più bisogno di dichiararlo, ma solo di assumerlo, abitarlo. Da questa riflessione, infatti, deriva il titolo HABITdata della nostra prossima produzione. Non rappresenta più la rivoluzione ma lo status quo, la nostra esperienza quotidiana. Danziamo semplicemente il presente affrontando la poetica, la crisi, il limite e il potenziale del mondo che viviamo.

 

Nel 2005 è stato creato il DiDstudio- Danza Interattiva Digitale, vivace realtà produttiva e divulgativa presente all’interno della Fabbrica del Vapore di Milano. Un luogo dove offrire formazione e sperimentazione delle nuove tecnologie applicate al settore della danza contemporanea. Quanto è importante la relazione con il territorio e qual è la risposta dei giovani nei confronti di questo terreno di ricerca?

Il DIDstudio è nato per una necessità molto chiara: creare un centro dedicato alla coreografia sperimentale nel cuore di Milano che garantisse un’attività di ricerca continuativa, legata all’innovazione dei linguaggi e al sostegno dei giovani autori. La tecnologia e il digitale sono sicuramente dei temi a noi molto cari ma ospitiamo artisti che condividano con noi un’attitudine al contemporaneo, che guardino ai linguaggi espressivi in una prospettiva sincretica, aperta, ibrida, e che sappiano accogliere e conoscere discipline e metodologie diverse.  Non vogliamo imporre uno sguardo.

Offriamo un programma di formazione, di incontri teorici, performance, progetti di residenza e spettacoli, cercando di creare un ambito, un contesto di dialogo tra artisti di generazioni, esperienze e formazioni diverse.

Quindi nello specifico, parlando di metodologia formativa, come avviene questa sensibilizzazione dei “formandi” nei confronti delle tecnologie? 

Attraverso workshop e seminari specifici in cui invitiamo artisti, sperimentatori e teorici a condividere le proprie esperienze e ricerche sul campo. Abbiamo chiamato numerosi artisti ed esperti di fama internazionale nel corso della nostra storia, proponendo laboratori di programmazione applicata alla danza e alle arti sceniche, ma crediamo che oggi questa necessità acquisisca altre forme e non sentiamo più il bisogno di essere così divulgativi. Con la rete e la diffusione di programmi open source e di strumenti di apprendimento semplici quali i tutorial, riteniamo che sia più importante lavorare sul linguaggio, sul senso della relazione corpo/macchina, sui contenuti che a nostro parere richiedono, in questa fase di estrema accelerazione, molta più attenzione e cura.

Grazie Ariella Vidach, buon lavoro a tutta la compagnia AiEP!

Giannarita Martino

22/07/2017

Foto: 1.-8. compagnia Ariella Vidach AiEP in Temporaneo Tempobeat, ph Mik di Savino; 9. Ariela Vidach AiEP, HABITdata, ph. Mik di Savino; 10.-12. Ariella Vidach AiEP, HABITdata.

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