L'intervista

Jan Fabre racconta Mount Olympus – To Glorify The Cult of Tragedy in scena al Romaeuropa festival

Jan Fabre, artista fra più apprezzati e discussi del nostro tempo, racconta la sua ultima creazione, Mount Olympus, spettacolo maratona in scena in prima italiana il 17 ottobre nell’ambito del Romaeuropa festival. In un incontro stampa, Fabre parla della genesi di questo spettacolo monumentale (dura 24 ore), una “celebrazione della nostra umanità”che si ispira alla tragedia greca e al rituale dionisiaco, di come ha selezionato e lavorato con i 27 interpreti, attori e danzatori, tra cui tre italiani, Pietro Quadrino, Matteo Sedda e Moreno Perna. Fabre parla del suo “teatro fisico e fisiologico”, del suo libro titolato Residui e della mostra “Gli anni dell'Ora Blu”, dedicata alle opere da lui realizzate con la penna biro e allestita fino al 10 novembre alla galleria Magazzino di Roma. Questo racconto avvincente è stato raccolto da Donatella Bertozzi.

Uno spettacolo, Mount Olympus, lungo una giornata intera. Una mostra, Gli anni dell’Ora Blu, dedicata alle opere realizzate con la penna biro (una Bic blu). E un libro, Residui, pubblicato da Editoria e Spettacolo, piccolo editore di Spoleto: il focus che Romaeuropa Festival, per festeggiare la sua trentesima edizione, dedica a Jan Fabre è stato presentato mercoledì 14 ottobre, alla stampa dallo stesso artista fiammingo.

Chioma bianca e caratteristici occhiali colorati a stanghetta, Fabre è arrivato a Roma per seguire in prima persona la prima italiana del suo ultimo spettacolo – Mount Olympus. To Glorify the Cult of Tragedy una creazione di proporzioni monumentali in scena al Teatro Argentina, dalle ore 19 di sabato 17 ottobre 2015  fino alla stessa ora del giorno seguente. Un’opera già proposta con successo, dopo la prima a Berlino in giugno, anche ad Amsterdam, San Paolo e Buenos Aires.

Artista poliedrico, ugualmente interessato alle arti visive, al teatro e alla coreografia (disciplina nella quale è peraltro integralmente autodidatta), Fabre – autore di un teatro intensamente dinamico e brutale, truculento e poetico allo stesso tempo – è fra gli artisti più apprezzati e discussi del nostro tempo. Fin da quando, dopo gli esordi come artista visivo, ottenne fama internazionale con un paio di memorabili spettacoli-maratona: Questo è teatro come aspettato e previsto (1982) e Il potere della follia teatrale (1984). Durata, rispettivamente, otto e cinque ore.

Intervistato da Matteo Antonaci, di Romaeuropa, nella sala conferenze dell’Associazione Stampa Estera, Fabre ha parlato con passione, a tratti quasi con tenerezza, di questa sua ultima creazione, che vede protagonista un gruppo sceltissimo di attori e danzatori – ben ventisette – da lui selezionati oltre un anno fa pescando fra le diverse generazioni di artisti legati al suo lavoro, con alcune nuove acquisizioni. Fra gli ultimi arrivati anche tre italiani: una attore, Pietro Quadrino e due danzatori, Matteo Sedda e Moreno Perna.

«La prima idea dello spettacolo risale a sei anni fa – racconta Fabre – Ho iniziato a lavorarci con Miet Martens, con cui collaboro da trent’anni per la scrittura drammaturgica, poi a noi si è unito Jeroen Olyslagers. Un anno fa ho fatto delle audizioni e alla fine ho raccolto circa trentacinque persone fra attori, danzatori, musicisti, tecnici. Abbiamo lavorato insieme ogni giorno, dalle undici del mattino a mezzanotte. Negli ultimi tempi anche fino alle due, le tre. Qualcosa di inaudito, oggi, nel mondo del teatro: lavorare insieme per dodici mesi… quando la maggior parte delle produzioni sono montate in otto, massimo dodici settimane…

Ma la mia idea era fin da principio, quella di uno spettacolo di ventiquattrore. Non nascondo che non sapevo che reazioni aspettarmi. “Sarò fortunato se alla fine rimarranno dieci, dodici persone in sala”, pensavo. Invece, al contrario, abbiamo avuto reazioni assolutamente al di là di quello che era ragionevole sognare: gente venuta dalla Svezia col sacco a pelo, con i viveri di scorta, gente che è rimasta anche oltre: se si pensa che alla prima di Berlino abbiamo avuto quaranta minuti di applausi! E il merito è della mia meravigliosa compagnia, dei miei attori e dei miei danzatori.»

Ventiquattr’ore senza interruzione e senza alcuna improvvisazione? Che tipo di scrittura scenica  è alla base dello spettacolo?

«Nei primi cinque mesi, in realtà, abbiamo lavorato moltissimo sull’improvvisazione. Gli attori hanno vissuto con la tragedia antica. Hanno cominciato approfondendo l’argomento con degli esperti e poi hanno lavorato ciascuno su un personaggio; il loro contributo personale è stato essenziale alla costruzione dello spettacolo. E non soltanto il contributo degli attori e dei danzatori: anche quello dei tecnici, dei musicisti, guidati da Dag Taeldeman, che intanto componevano le musiche. Ed erano al lavoro lì, insieme a noi, così che anche loro hanno influenzato, via via, quello che noi facevamo.

Io ho poi creato strutture fisse, all’interno delle quali i performer devono agire. Ma c’è molto spazio anche per agire come individui, per esprimere se stessi, la propria personalità, la propria idea del personaggio. Ogni personaggio nella tragedia greca è la rappresentazione di una parte della nostra natura. La vendetta, il potere. Medea, Clitennestra. Su ciascuno di questi elementi abbiamo lavorato.

Alla base del lavoro ci sono alcune domande che mi interessano. Per esempio che cosa significa catarsi oggi. Cosa significa in una società come la nostra, dominata da internet e social network, riunirsi, incontrarsi di persona, condividere uno stesso luogo, per una giornata intera.. Dormire insieme, mangiare insieme.

In questo lavoro ci sono connessioni anche con alcuni aspetti della tragedia greca come il dormire, il sognare, l’insonnia: le tragedie son piene di sogni, oracoli, premonizioni. C’è un legame profondo con la dimensione del sonno, del sogno.»

Come ha selezionato gli interpreti?

«Con Miet Martens abbiamo scelto i migliori fra tutti i performer che avevano lavorato con noi in questi trent’anni: artisti della generazione fra i cinquanta e i sessant’anni, quelli della generazione più giovane – quaranta cinquantenni – giovanissimi che avevano lavorato con me due anni fa, anche qui a Roma. E altri, che ho scelto in questa occasione. Persone che si sono formate con me,  secondo il mio metodo di recitazione fisiologico. O che lo hanno imparato in questa occasione.»

Ciascuno dei tre interpreti italiani aggiunge a questo punto una sua personale prospettiva:

Pietro Quadrino : «Fra noi c’è innanzitutto una grande fiducia. Noi siamo – così io penso – la sua materia prima. Jan si serve di noi come si serve dell’oro, del marmo, dei suoi colori. Siamo i suoi colori. Ma c’è anche molta libertà nel lavorare con lui. Siamo costretti in una cornice, attraverso delle azioni – come correre, saltare, ballare – che dobbiamo eseguire, ma queste azioni influenzano il nostro corpo e le nostre reazioni sono vere e sono perciò ogni volta diverse. Jan parla di ‘un ponte fra l’azione e la recitazione’ (“a bridge between act and acting”): noi lavoriamo su questo ponte. Questo spettacolo è un lavoro unico, imperdibile, nel quale Jan ha dato tutto e per il quale ogni volta noi diamo tutto. E se mai dovesse capitare di tornare a vederlo, vedrete uno spettacolo diverso.»

Matteo Sedda: «Ho cominciato a lavorare con la compagnia in ottobre e i primi tempi più di una volta mi capitava di tornare a casa e di chiedermi: “Ma dove sono capitato? Sono qui, di fronte a un artista che ho studiato sui libri, di cui sentivo parlare in Accademia…” e non riuscivo a crederci.

Mi è capitato anche di piangere. E anche adesso che son qui che ne parlo, sono emozionato.

Per me lavorare con lui ha significato tornare bambino, poter tornare a lasciar libera l’immaginazione, la creatività. Ho assorbito, imparato, da tutti – performer di grande esperienza, di età diverse – e ho visto il mio corpo cambiare. Ogni volta vediamo /viviamo qualcosa di diverso. E durante lo spettacolo ci immergiamo in una dimensione che annulla la differenza fra mondo reale e sogno. Poi ti affacci e vedi che là fuori il mondo continua… E’ una ben strana sensazione!»

Moreno Perna: «Io ho iniziato quest’anno a maggio. Studiavo ad Amsterdam e ho fatto l’audizione. Anche per me in principio è stato strano poter lavorare con un nome leggendario. Ma Jan è una persona molto aperta, che si fida moltissimo dei suoi interpreti. E il suo lavoro è proprio basato su ciascuno di noi. Vivere insieme, cucinare insieme, vuol dire vivere un tipo di umanità molto terrena  e molto diretta. Ognuno di noi rappresenta un suo personaggio: Pietro è Aiace, per esempio, il mio personaggio invece è quello del Demone Serpente: una forza sotterranea e dionisiaca che distrugge dall’interno le nostre difese. Ne parla Calasso nel suo libro Le nozze di Cadmo e Armonia. (Il famoso testo di Calasso, edito da Adelphi, che rappresenta uno dei punti di partenza dello spettacolo è stato distribuito a ciascuno dei performer prima dell’inizio del periodo di prove n.d.r.)

Perché ventiquattr’ore ore? Per quale necessità?

«Lo abbiamo deciso fin da principio – sostiene Jan Fabre – Del resto si pensi che i rituali dionisiaci ai quali ci ispiriamo duravano tre giorni e tre notti, dunque ventiquattr’ore ore sono ancora uno spazio limitato. Volevamo attraversare la notte, andare oltre il sole che tramonta e la luna che sorge. Volevamo una celebrazione della nostra umanità: uscire fuori dal sistema, che impone a ciascuno una  iperproduttività: stabilire un legame col pubblico, aiutarlo a uscire dalla gabbia della produttività per condividere una cosa sola, per un giorno intero. Chiaro che in queste condizioni, a un certo punto, subentra una profonda stanchezza, sia negli interpreti che nel pubblico. E’ a quel punto che le maschere intellettuali che regolano di solito la nostra vita e la vita del teatro, cadono. E abbiamo reazioni più pure: l’estrema stanchezza scatena degli effetti molto interessanti, il tempo dilatato aiuta ad esprimersi con più verità.»

Si può dire che lo spettacolo rappresenti una lunga seduta psicoanalitica? E in quale lingua comunicava ai suoi artisti durante le prove?

«Tutto questo non ha assolutamente niente a che fare con una seduta analitica o con il teatro psicologico. Al contrario io spiego ai miei interpreti che il corpo è fatto di reazioni chimiche e fisiologia. Il mio è teatro fisico e fisiologico. Per la preparazione dello spettacolo ho comunicato con loro innanzitutto con il corpo, con i miei disegni, con la mia arte. E poi attraverso il mio cattivo inglese, il mio cattivo francese, il mio pessimo italiano: non c’è una sola lingua per comunicare ma ci sono innanzitutto rispetto e fiducia. E nessun giudizio morale: in questo modo, con il rispetto e la fiducia, si riesce ad essere molto onesti e anche duri con i colleghi. Lavorare insieme significa condividere l’immaginazione e il rispetto e la fiducia inducono ad osare anche a costo di essere molto critici gli uni con gli altri.»

Fabre ha poi fatto alcune osservazioni a partire dal volume Residui, che raccoglie una selezione di testi tratti da precedenti spettacoli:

«Il mio teatro intende rispondere a domande come “che cos’è un attore?” e “che cos’è la bellezza?”. Sono molto contento di vedere i miei testi raccolti in un libro. I libri mi piacciono. Innanzitutto come oggetti. Mi piace l’odore della carta. E mi piace che riflettano il mio modo di pensare il teatro.

I miei testi non sono semplici parole: preferisco pensarli piuttosto come delle istallazioni. Hanno per me una consistenza materica. Il titolo del volume Residui (in fiammingo “Restanten” ndr) ha un analogia con quello che è giunto fino a noi, che ci è rimasto, della tragedia greca: solo pochi testi, in realtà. E di alcuni testi solo pochi frammenti. Residui, appunto. Così che possiamo farcene un’idea necessariamente parziale. Curiosamente questo accade anche per i nostri sogni: al risveglio non riusciamo a ricordarne, spesso, altro che dei frammenti. Ecco un altro legame fra tragedia greca e sogno. Questo libro sembra una cosa totalmente diversa da Mount Olympus ma in realtà, come vedete, c’è un collegamento. Voglio aggiungere che ogni testo di quelli qui raccolti è stato pensato e scritto per un singolo interprete – alcuni dei quali vedrete in scena – I miei testi sono tutti scritti per persone specifiche, non sono testi “classicamente” teatrali: ciascuno è scritto per un interprete specifico. Sono frutto di fiducia.»

Con una semplice penna biro una Bic blu, da anni Jan Fabre crea opere d’arte. Una parte di queste è alla galleria Magazzino fino al 10 novembre.

«Sono opere dedicate ai percorsi degli insetti: percorsi non solo nello spazio ma anche nel tempo. Strati successivi di percorsi diversi. Si ispirano all’opera dell’entomologo Jean-Henri Fabre (forse un suo lontano antenato ndr). Gli insetti ci sono sempre stati: sono i depositari della memoria. A volte, lo avrete visto, riescono a spostare masse enormi, del tutto sproporzionate alle loro dimensioni. Mi appaiono tutti come delle repliche di Sìsifo.»

Donatella Bertozzi

15/10/2015

Lo spettacolo Mount Olympus è tutto esaurito. E’ possibile iscriversi a una lista d’attesa e subentrare ad orari fissi al posto di coloro che via via eventualmente desistano.

Mount Olympus – To Glorify The Cult of Tragedy sarà trasmesso integralmente in streaming a cura di Enrico Ghezzi ed Emiliano Montanari  www.egh.guru

La galleria Magazzino è in Via dei Prefetti 17 ore 11-20 (mart-sab) info@magazzinoartemoderna.com.

 

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