La recensione

Ananke di Michele Pogliani. Per una scelta d’amore al di là delle barriere sociali.

Un duello tra amore e necessità dell’amore, tra essere e apparire, tra mente e cuore. Questo il tema affrontato da Michele Pogliani in Ananke che ha debuttato a fine gennaio al Vascello di Roma. Un lavoro sull’uomo che mostra una rinascita del coreografo romano e una maturità coreografica e performativa portata avanti con dedizione, passione ed estro. In scena cinque uomini metropolitani, cinque parti di un solo uomo che sceglie il proprio spazio e l'amore, al di là delle barriere.

Un quadrato di luce su un palcoscenico completamente nero illumina l’intero spazio dello spettacolo Ananke di Michele Pogliani, nato in seno a MP3 Project e andato in scena il 23 e il 24 gennaio 2017 al Teatro Vascello di Roma.

L’intera performance si svolge all’interno di questi quadrati luminosi, caratteristica distintiva e marchio di fabbrica del coreografo romano. «Il quadrato non è perfetto, il quadrato è giusto», spiega Michele Pogliani. Nello spettacolo il quadrato è un mondo, uno spazio delimitato in cui sentirsi costretto, connesso alla volontà di uscirne fuori, oltrepassarne il limite e nello stesso tempo zona di comfort, uno spazio che si conosce alla perfezione e che protegge dal mondo esterno. Non è un’affermazione meramente filosofica, ma un vero e proprio studio coreografico per tornare all’essenzialità dell’aspetto scenico. I protagonisti, infatti, spaziano tra i quadrati, con una forte e chiara ambivalenza, simbolo dell’iniziale coscienza di se stessi.

Il filo rosso che collega Ananke è, infatti, l’uomo inteso non solo come essere umano che vive in una contemporaneità realistica, ma anche come sesso maschile che indaga sull’inesauribile e illimitata lotta tra l’amore e la necessità dell’amore. Il mito della dea greca che dà il nome allo spettacolo fa, in effetti, riferimento alla necessità e alla forza: l’uomo propone un viaggio verso la catarsi personale, liberandosi così da esperienze traumatizzanti e conflittuali.

In questo continuo riproporsi nei quadrati di luci, i cinque danzatori – Enrico Alunni, Gennaro Maione, Gabriele Montaruli, Ivan Montis e Mattia Raggi – sono cinque eroi metropolitani e rappresentano cinque sfaccettature diverse di una stessa persona. La sfida – senza dubbio vinta – del coreografo è stata quella di armonizzare le corporeità, gli stili e i movimenti differenti in un’essenzialità scenica evidente. Respirano all’unisono come se avessero un solo polmone e pensano come se avessero un unico cervello. Una “omogenea eterogeneità” è l’ossimoro che meglio chiarisce il giudizio finale della diversità dei corpi danzanti. Allo spettatore resta il compito di comporre da sé una traccia di senso, di fronte a una drammaturgia che nasce dai passi e non da una storia prestabilita, e che prende forma su soli, duetti, passi a tre e quintetti.

Curioso, attuale e nuovo per Pogliani, è l’utilizzo dei tacchi in un passo a due tra i serpenti blu e rosso, momento in cui, dalla primordialità, si passa alla consapevolezza e all’accettazione di una parte femminile in ogni uomo: le due sessualità dell’essere umano, maschile e femminile, si completano.

Di aiuto, in questa direzione di comprensione, sono certamente le luci di Stefano Pirandello e i costumi realizzati da Tiziana Barbaranelli che contribuiscono a definire il viaggio degli interpreti e dello spettatore. Da una quasi totale nudità iniziale, si passa a un momento centrale in cui i costumi (metà pantaloni e metà gonna) rappresentano una prima evoluzione verso l’accettazione, per concludere poi con un essenziale e candido bianco finale, che “magicamente” si sporca nuovamente di tempera colorata, segno del giudizio e del pregiudizio inflitto dal mondo esterno a sé.

A visioni che vanno oltre il concetto di “teatro tradizionale” lo spettatore del nuovo secolo è, certamente, abituato e avvezzo. Sesso e nudità. due delle tematiche affrontate nei sessanta minuti che compongono la performance, si muovono, qui, al confine con l’eccesso. Ma è una sottigliezza che non disturba e che trova la sua naturale collocazione nell’intero quadr(at)o coreografico che non vuole essere perfetto, ma giusto.

Dall’inizio alla fine, la musica di impianto elettronico muove i corpi dei danzatori fluidi e trova una giusta coniugazione con le sequenze coreografiche. Nella maggior parte dello spettacolo il ritmo è veloce, dinamico e deciso, fino ad arrivare a un momento in cui tutti i danzatori si muovono in slow motion; seguendo un tempo lento scandito dalla sola musica, il gruppo si sottopone a un’ardua prova di tecnica e coraggio, con sollevamenti, cambi di peso ed equilibri complessi.

Il duello proposto da Ananke sulla scena tra amore e necessità, tra essere e apparire, tra consapevolezza e cognizione, tra mente e cuore, mostra una rinascita del coreografo romano Michele Pogliani e una maturità coreografica e performativa portata avanti con dedizione, passione ed estro.

Giancarlo Anzalone

10/02/2017

 

Foto: Enrico Alunni, Gennaro Maione, Gabriele Montaruli, Ivan Montis e Mattia Raggi in Ananke di Michele Pogliani. Servizio fotografico di Matteo Bertelli.

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