La recensione

Danza d’amore al Romaeuropa Festival: applausi per Love Chapter II di Sharon Eyal

È tornata a Roma con Love Chapter II, la coreografa Sharon Eyal, già interprete e direttrice associata dell’israeliana Batsheva Dance Company e fondatrice con Gai Behar di L-E-V Dance Company. La creazione prosegue l’indagine sul tema dell’amore iniziata con OCD Love, applauditissimo al Romaeuropa 2016, focalizzandosi questa volta sulla fine del sentimento, sul desiderio che resiste, sulle declinazioni dell’assenza. Cinquantacinque minuti di danza, intensa e bellissima, che supera i limiti del corpo per catturare il cuore dell’emozione. Lunghi e calorosi gli applausi al Teatro Argentina per i cinque eccezionali interpreti.

Attesissima dal pubblico del Romaeuropa Festival, Sharon Eyal, per anni interprete di punta, autrice e direttrice artistica associata della Batsheva Dance Company e poi fondatrice con Gai Behar di L-E-V Dance Company, è tornata al Teatro Argentina di Roma con Love Chapter II, secondo atto di un ciclo creativo dedicato all’amore: quello totalizzante, ipnotico, inestirpabile.

Già ospite del REf nel 2016 con OCD Love, Eyal torna a scavare nel buio di ossessioni randagie e a graffiare gli animi che affondano in amore seguendo gli attimi pericolanti dell’innamoramento oltremisura.

Su una scena semibuia, scatola oscura del turbamento e dell’assenza, si stagliano i profili immobili di corpi sottili tra i battiti techno ed incalzanti di Ori Lichtik, musicista e storico collaboratore di L-E-V. Sono linee e curve irregolari che reclamano l’inerzia di un atto ormai compiuto: quando gli angoli si schiariscono e i volti si dichiarano, scopriamo cinque protagonisti, due uomini e tre donne, accomunati dall’azzurro tenue di un body unisex e da un unico sentimento, ossessivo e carnefice, d’amore e incoscienza.

Quel che accade dopo è la danza fulminea e densa, candida e atroce, di un cuore in bilico tra la prigionia e il distacco, tra la dipendenza e il controllo. In costante movimento, incastrati tra la caduta e la retta via, gli interpreti si inchiodano al suolo e viaggiano sulle mezze punte, con artigli che cercano la terra e ali che tentano il volo. In equilibrio precario nel carcere di una via intermedia, sfogano il proprio dolce delirio in cinquantacinque minuti di danza e liberazione, isolamento e fuga, compulsione e rinuncia.

Se da un lato si perde, in questo secondo capitolo, l’articolata rappresentazione dell’amore irresistibile e “disordinato” di OCD Love, dall’altro la danza finisce per acquistare l’immenso potere di segno universale, perfettamente in grado di tradurre in gesto la muta inquietudine della mente. Proporzionalmente all’annullamento di ogni aggancio narrativo, l’azione danzata esplode in intensità e bellezza: minuti senza scampo per gli occhi e per il pensiero di chi respira all’unisono con quei passi repentini e puntuali, prima placidi e poi fieri, d’un tratto furiosi e disarticolati, infine solidi e definitivi.

I corpi flessuosi, a tratti improvvisamente nervosi, si serrano in gruppo e si spostano come sciami, per poi tornare come monadi azzurre e solitarie, dolorosamente piegate e curve, eppure ancora in piedi, vive, bellissime. Lo stile di Sharon Eyal si modella sulle linee perentorie di suoni vicinissimi eseguiti dal vivo: ritmi di insofferenza e rumore di pensieri, incatenati alla paura del vuoto. Solo sul finale i battiti inclementi si placano tra le note calde di una canzone argentina (Quimey Neuquen di José Larralde); i corpi sembrano assecondarne le curve e la tensione pare sciogliersi in una danza di quiete, malinconia e riconciliazione.

È solo un attimo o forse è per sempre. È l’amore che finisce e che ricomincia. Le luci si abbassano, il ticchettio si affievolisce. Il battito di L-E-V (cuore, in ebraico), adesso, ci appartiene.

Reduce dal recente successo parigino della sfilata Dior all’Ippodromo di Longchamp, per la quale ha curato le coreografie, Sharon Eyal si conferma a Roma una delle più forti protagoniste della scena coreografica internazionale grazie ad un segno riconoscibile e originale, accuratissimo nell’estetica, travolgente nello stile e nel ritmo. Lunghissimi gli appalusi del pubblico dell’Argentina per i cinque danzatori, interpreti di assoluta bravura: Gon Biran, Rebecca Hytting, Mariko Kakizaki, Darren Devaney, Keren Lurie Pardes.

Lula Abicca

04/10/2018

Foto: Love Chapter 2 di Sharon Eyal e Gai Behar , L-E-V Dance Company, ph. André Le Corre.

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2 Commenti

  1. StefyDeMitri

    “La partitura sonora é cucita sulla danza, inseparabile dalla creazione” dice Sharon Eyal.
    In questo lavoro infatti danza e musica si fondono in perfetta armonia.
    La musica da subito raggiunge lo spettatore colpendolo con il suo pulsare forte, come un battito cardiaco costante, mentre osserva la danza che si spiega sulla scena, una danza potente.
    Lo spazio scenico appare spoglio.
    I costumi dei ballerini sono essenziali, chiari, la loro pelle è bianca, offrono al pubblico una visione pallida, lunare.
    Il ritmo cambia, viene affiancato da un risuonare di campane, percussivo, continuo, che si sovrappone al battito. A tratti anche i ballerini si affiancano. Virtuosi, eccellenti nell’esecuzione di una coreografia non facile, lungamente sulle punte. Sono un unico corpo pur eseguendo ognuno i suoi movimenti.
    Le campane evocano un rito, una funzione inserendosi in questa pièce sull’amore, un amore felice e triste, fatto di luci ed ombre.
    Ora la musica diventa meno incalzante, scende di tono, i ballerini si muovono sulla scena in una sorta di passeggiata.
    Ancora riprende un poco l’incalzare del battito poi nuovamente cala la tensione, il ritmo diventa spagnoleggiante, la danza segue l’onda ispanica, il movimento si associa ai tempi.
    “Solo quando la danza supera i limiti del corpo, diventando estremamente fisica, è possibile che raggiunga il cuore delle emozioni” spiega ancora Sharon Eyal.
    Il pubblico applaude a lungo a fine rappresentazione.
    Fuori dal teatro i commenti sono per la maggior parte entusiasti, elogiano la raffinatissima coreografia, la precisione dei danzatori nell’esecuzione dei pezzi, l’assenza della minima sbavatura.
    Qualcuno però aggiunge che una perfezione tecnica così assoluta rischia di perdere sulla strada un po’ di cuore.
    Stefania De Mitri
    Danzaeffebi meets #REf18

    Ott 04, 2018 @ 20:43:45

  2. MariaSerafini

    “L’amore esclude ogni opposizione”, scriveva il grande filosofo tedesco Hegel, in uno scritto giovanile.
    Non sembrerebbero essere d’accordo con lui, la coreografa Sharon Eyal e il suo Love Chapter II, uno spettacolo dalle tinte decise ma anche incerte, tutto giocato sulla paradossale convivenza di piacere e dolore, una compresenza che assume configurazioni diverse l’una dall’altra, tutte irripetibili e inedite, che si fanno spazio sul palco quasi sgomitando tra di loro, freneticamente, direi ossessivamente.
    La forza è unica cifra possibile, il corpo è impossessato, vittima sacrificale, si abbandona al giogo di ossessione, voglia, urlo che l’amore gli impone, e il passionale non può che cedere al patologico. Da questo punto di vista accompagnare a un titolo come “Love” un’atmosfera cupa, angosciante, severa, ficcante risulta allo spettatore, sì, una scelta dapprima scioccante e impopolare, ma presto risolta nell’ovvietà di un’ottica prossima al senso comune: tutti in fondo sappiamo che l’amore è bello e brutto insieme, lo desideriamo, ma lo temiamo tutti. Eppure la sensazione è che in questo “Amore” ci sia in ballo (letteralmente!) qualcosa di più fine e coraggioso di un’idea di convivenza tra opposti.
    Nel loro scattoso e ondeggiante andare, i danzatori si portano spesso la mano sul volto, e si coprono, si asciugano, piangono, godono, cosa fanno, non saprei. E’ lamento o godimento? Voglia o repulsione? Nell’impossibilità di una risposta si realizza il vero specifico dell’amore, di quell’unità all’interno della quale gli opposti vivono senza essere più separati, un tipo di unità altra da qualsiasi forma di convivenza “formale” tra opposti. Il piacere, in questo “Love”, non sta semplicemente accanto al dolore, o subito dopo. Il piacere “è” il dolore. Questo è il senso ultimo dell’amore ostentato con fierezza al Teatro Argentina: l’amore è l’ “è”, la possibilità della copula, il toglimento della separazione, lo spazio originario all’interno del quale il piacere e il dolore sono la perfetta unità di se stesso e dell’altro. Nel gesto, nel corpo dei danzatori (eccellenti!), nel loro interagire con una musica viscerale e folle, si rende manifesta quest’unità scandalosa, originaria, biologica e culturale insieme, e con lei tutto il disagio che comporta: l’impossibilità di essere detta. La scelta del movimento sulla parola è il tentativo di dire l’indicibile: l’infinito esistere nel frammento, che spinge fuori deformandone i contorni, l’infinito sentire che lotta contro l’espressione limitata, che tenta di rompere i limiti del corpo e nel movimento eccessivo trascendere la propria incapacità.
    Maria Serafini
    Danzaeffebi meets #REf18

    Ott 05, 2018 @ 10:08:47

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