L'intervista

Fabrizio Monteverde allo specchio: il ritorno di Giulietta e Romeo.

In occasione del ritorno del suo storico Giulietta e Romeo (creazione originale del 1989), che ha debuttato il 25 febbraio 2017 al Teatro Il Celebrazioni di Bologna e poi in tour fino a maggio in tutta Italia, il coreografo Fabrizio Monteverde ci parla del nuovo allestimento della sua opera dal successo trentennale, rinata con gli interpreti del Balletto di Roma. A due anni dall’annuncio d’addio alla scena coreografica italiana, l’autore ci parla della sua scelta, della sua nuova vita a Cuba, dei ricordi del suo lungo percorso creativo e del dovere di un artista. Nelle sue parole, la tenerezza verso il passato e la fiducia in un presente diverso.

Schivo per natura, Fabrizio Monteverde è artista del contrasto e genio dell’inquietudine: cinico e passionale, tragico e beffardo, è demone di un teatro che manipola a suo piacimento e a cui dichiara fede eterna e incontenibile.

La creatività dirompente lo ha portato in trent’anni a costruzioni coreografiche imponenti, ancora oggi simbolo di una scrittura indipendente e spregiudicata, sciolta da vincoli ideologici, eppure padrona di un sistema filosofico netto e demistificante.

Nato come attore e regista, si converte negli anni Ottanta alla danza contemporanea; l’innata predisposizione lo porta in breve ad imporsi nella coreografia italiana (già nel 1985 con Bagni Acerbi, commissionato dal Teatro Spazio Zero di Roma). Vengono poi gli anni d’oro con il Balletto di Toscana (dal 1989 al 2000), per cui crea spettacoli memorabili, oggi considerati opere di svolta nella storia della danza italiana: Giulietta e RomeoOtelloLa TempestaBarbablù. Nel tempo, crea per le più importanti compagnie italiane come MaggioDanza, Teatro San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Opera di Roma, Scala di Milano. Dai primi anni del Duemila collabora con il Balletto di Roma, con il quale porta in scena nuove creazioni e riprende i più importanti balletti del suo repertorio (Giulietta e RomeoCenerentolaOtelloBolero, e il recente Il lago dei cigni, ovvero Il Canto).

Nel 2014, Monteverde sorprende tutti annunciando il ritiro dalle scene, e lo fa, coerentemente, con lo strumento espressivo che ne ha consacrato il nome: la coreografia Il lago dei cigni, ovvero Il Canto segna, nel titolo e nelle intenzioni, l’ultimo atto del suo intenso percorso creativo, lasciando al futuro la responsabilità del ricordo. Con gli ‘anziani’ ballerini del suo Lago, sfiniti dall’ennesima replica di un balletto maledetto, Monteverde decide di intonare il proprio canto del cigno, seppur lontano da quell’anima fredda e buia come una cantina di cui parla Anton Čechov.

Pochi di noi si sono rassegnati al suo addio e, in attesa di un auspicato ripensamento, godiamo della sua presenza sui palcoscenici italiani grazie al riallestimento delle opere del passato: dopo il ritorno di Otello nel 2015/2016, assistiamo ad un nuovo debutto di Giulietta e Romeo con il Balletto di Roma che dopo il debutto al  Teatro Il Celebrazioni di Bologna lo scorso 25 febbraio 2017, è  in tour a Milano (dal 23 al 26 marzo 2017 Teatro Carcano), Assisi   (31 marzo 2017 Teatro Lyrick), Firenze (1 aprile 2017 Teatro Verdi), e per una settimana, dal 2 al 7 maggio 2017 al Teatro Quirino di Roma.

 

In occasione del riallestimento di Giulietta e Romeo, il coreografo ci ha parlato di sé con i toni quieti di chi si ritrova a confrontarsi con lo specchio della propria giovinezza creativa: “Si tratta di un vero e proprio ritorno alle origini perché ho scelto di riportare in scena una versione di Giulietta e Romeo molto vicina alla prima del 1989, in una sorta di operazione ‘filologica’ che mi pone di fronte al principio della mia ispirazione. Negli anni, la coreografia (già tornata in scena nei primi anni del Duemila con il Balletto di Roma e applaudita in una tournée di successo in Cina nel 2011, ndr) ha subito diverse modifiche per adattarsi a nuovi interpreti e palcoscenici; oggi desidero tornare al mio primo Giulietta e Romeo, modellandolo su nuovi ballerini, ma recuperando il più possibile le intenzioni estetiche e drammaturgiche originali. L’operazione risveglia in me strane memorie perché mi fa tornare in mente situazioni e umori di trent’anni fa; accadono molte cose nel tempo, alcuni danzatori della prima versione non ci sono più e sento per questo un forte senso di nostalgia. Ma certamente provo anche un sentimento di tenerezza nel pensare alla sfida a cui all’epoca andai incontro: era la prima coreografia ‘a serata’ per una grande compagnia, la prima volta che costruivo un lavoro su musica classica con ballerini di formazione prettamente accademica. Scelsi Romeo e Giulietta: volevo che questa esperienza iniziasse con il classico dei classici, la tragedia dell’amore e della morte”.

William Shakespeare si trasforma da allora in una fonte d’ispirazione prediletta, che porta Fabrizio Monteverde a comporre una trilogia ispirata alle sue opere (dopo Giulietta e Romeo, crea Otello e La Tempesta): “Non amo le storie a lieto fine, e forse per questo sono stato attratto dalle trame shakespeariane che raccontano sentimenti assoluti. Dico spesso che è impossibile per me raccontare l’amore, lo è un pò meno l’amore impossibile: credo che la danza abbia una propria drammaticità, così come il corpo che ne è protagonista; difficilmente ho visto balletti che facevano ‘ridere’, la felicità è meno rappresentabile e meno interessante. Shakespeare incontra il mio stesso spirito drammatico, velatamente cinico nei confronti dell’amore e del futuro. L’ironia che a volte si legge nelle mie creazioni è in fondo un pessimismo travestito d’ottimismo”.

 

Per molti, Fabrizio Monteverde è tra i pochi autori italiani in grado di portare in scena drammaturgie compiute, originali nell’introspezione dei personaggi ed esaltate da un’abilità registica distintiva: “Il mio sogno era quello di diventare regista di cinema, un’arte che continua a piacermi più di ogni altra, ma la vita sceglie il proprio corso e ci si ritrova in contesti più grandi di noi o comunque imprevisti. La danza mi piaceva e il fatto che i danzatori uomini all’epoca fossero pochi mi ha favorito nella carriera d’interprete. Poi ho capito di non avere un carattere adatto a questo, non amavo subire la gerarchia del balletto e soprattutto non riuscivo ad essere strumento della creatività degli altri, volevo esserne autore. Certamente l’esperienza teatrale mi ha reso diverso, il mio amore è nato in teatro e solo dopo l’ho applicato alla danza: ancora oggi, resto dell’idea che una volta saliti sul palcoscenico si debba ‘fare teatro’, nel vero senso dell’espressione”.

Nel titolo ribaltato della versione monteverdiana, Giulietta si trasforma nel simbolo di una ribellione giovanile e infausta, di cui sarà volitiva protagonista e tragica vittima: “Giulietta è il motore e forse persino la causa della tragedia (pensiamo alla sua insistenza nella scena dell’allodola e dell’usignolo nel terzo atto). Io stesso credo che le donne siano questo: causa ed effetto. Gli uomini si lasciano trascinare, si innamorano; le donne scelgono di farlo o di non farlo, hanno il calcolo nella mente. Desideravo portare in scena questa rappresentazione dell’intenzionalità femminile attraverso l’immagine di un pugnale che passa di mano in mano e che parte proprio da una donna, la madre di Romeo. Nel titolo ribaltato c’è la centralità femminile delle famiglie matriarcali del Sud, in cui ho scelto di ambientare la trama: mi sono ispirato al cinema neorealista e a quel bianco e nero che si trasforma nell’oscurità di uno stato d’animo collettivo, l’unico in cui mi sembrava possibile far germogliare un nuovo seme d’amore, simbolo di rinascita e speranza”.

Nelle opere di Monteverde, i nodi psicoanalitici aprono allo spettatore letture e interpretazioni molteplici con cui il coreografo sembra giocare con maestria: “Mi piace che gli altri, secondo la propria sensibilità, trovino nuovi significati anche in quello che porto in scena inconsapevolmente. Nella creazione molto parte dalla mente, ma molto le sfugge; quando si sommano le memorie che possediamo, non possiamo sempre sapere da quale miscuglio arrivi l’idea. L’importante è trovare una chiave di rielaborazione, altrimenti non avrebbe senso portare in scena una storia. Del resto, quelli che chiamiamo capolavori sono tali perché hanno attraversato i tempi e i luoghi e perché hanno raccontato qualcosa che vale sempre e per tutti”.

Nell’impresa creativa di Monteverde, il rapporto con la musica diventa presto cruciale: “Con Giulietta e Romeo mi sono trovato a dover fare i conti con una partitura completa, classica, in grado di raccontare più della danza stessa. Fino ad allora avevo lavorato con musiche originali che si modellavano sulla mia idea coreografica. Questa prima volta con Sergej Prokof’ev ha segnato la mia ‘corruzione al classico’ perché ha fortemente influenzato la mia visione, ispirandomi linee accademiche, bellezza, purezza di gesto e movimento”.

E poi gli interpreti, tassello fondamentale della sua ispirazione: “I danzatori contano molto nel mio lavoro. Giulietta è stata interpretata da diverse ballerine e a me piace ogni volta scoprire qualcosa di nuovo nel personaggio e nella partitura coreografica. Amo rileggerlo su nuovi corpi e sensibilità, perché ognuno possiede una propria idea del ruolo e mi piace scavare in quello che l’interprete mostra attraverso il movimento. Quando sono in sala osservo prima di tutto l’istinto del ballerino, quell’intelligenza che deve tenere ben celata e mostrare solo attraverso il gesto. Preferisco l’essenza del movimento alla pantomima o alla recitazione, cerco quel tocco interpretativo che possa dare un senso allo spettacolo. In passato mi sono innamorato di interpreti in cui scoprivo una sensibilità comune alla mia, ho adorato Elisabetta Terabust, ammirata nei lavori di Roland Petit, e Luciana Savignano. Con questa generazione di danzatori del Balletto di Roma ho un rapporto molto stretto, alcuni di loro hanno già interpretato diversi miei lavori; la mia Giulietta, Azzurra Schena, è già stata protagonista in passato ed è ancora perfetta nelle sue espressioni di ‘eterna adolescente’. Luca Pannacci è forse oggi il mio Romeo ideale perché possiede tutto ciò che cerco in un danzatore: è bravo tecnicamente, è umile, attento, preciso nel movimento, e soprattutto è sensibile ed estremamente ricettivo”.

I giovani amanti Giulietta e Romeo e gli anziani ballerini de Il lago dei cigni segnano metaforicamente l’inizio e la fine di un cerchio creativo, e ad oggi Fabrizio Monteverde non sembra voler fare marcia indietro sul proprio annuncio d’addio: “Mi piace che questi due lavori segnino la prima e l’ultima parentesi, e che all’interno ci sia stata la mia vita nella danza. Le motivazioni del mio addio sono infinite: quando ci si rende conto di ‘subire’ il mondo della danza e di non apprezzarlo più, è giusto cercare altri stimoli e lasciare il campo. Ho un’età per cui molte cose le ho già viste, ritrovo spettacoli che ho già conosciuto negli anni Settanta (penso ad esempio alle esperienze del Living Theatre) e mi sorprende che oggi, in Italia, vengano presentati come ‘novità’. Quello che vedo è più onanismo che coreografia. Questo non significa per me sparire dalle scene, ad oggi ci sono almeno cinque miei lavori che continuano ad essere rappresentati. Se ci saranno nuove produzioni, qui o altrove, sarà per un’impellenza creativa o per un regalo ad una compagnia. Sono stato molto prolifico nei miei primi trent’anni di attività, ora riverso la mia creatività su qualcos’altro, come su una cosa bizzarra che si chiama vita”.

 

Da qualche anno, il coreografo risiede a Cuba e rientra in Italia solo in occasione dei riallestimenti delle sue produzioni passate, un cambiamento di cui si dichiara estremamente felice: “La mia vita cubana è nuova in ogni senso, mi trovo nella condizione di apprendere e non di creare, sebbene persino la costruzione della mia casa cubana possa definirsi un’operazione creativa. Trovo qui un sapere che ignoravo ed è per me una rinascita che comprende tutto: gli amici, una musica diversa, la lingua, il cibo. Amo questo paese dalla prima volta che l’ho visitato. Ora che vivo in questo nuovo mondo, mi piacerebbe raccontarlo, forse attraverso uno spettacolo di danza, teatro e cinema, che parlasse della Cuba vera, quella che si nasconde dietro le spiagge immacolate”.

Nella sua mente creativa, incontri e progetti incompiuti tornano a volte protagonisti: “Il mio cassetto delle idee è naturalmente sempre pieno. In altri tempi ho pensato ad una mia versione di Carmen (su musica di Georges Bizet), oppure ad uno spettacolo dedicato a Roma. Poi però la creatività si trova a dover fare i conti con le contingenze e con il mercato, e i progetti finiscono per essere rimandati e dimenticati”.

Tra i ricordi del passato, alcuni restano indelebili nella memoria artistica di Fabrizio Monteverde: “Una delle esperienze più belle nella mia carriera è stato lavorare alle coreografie de La luna incantata, film di danza per la televisione (RAI) con regia di Vittorio Nevano. Lo è stata principalmente per due cose meravigliose: la Sardegna, dove girammo tutte le scene, e Alessandra Ferri, protagonista del film e delle coreografie. Per me, due incontri magici. Fu difficile, ma bellissimo, pensare alla danza in funzione di un nuovo strumento, la telecamera, mettendola a disposizione di un’altra arte e di un altro sapere. Fu un esperimento unico nel suo genere, un racconto di danza attraverso la danza stessa”.

 

E tra gli incontri di una vita, un’unica inconsapevole maestra: “Sono stato un pessimo allievo, indisciplinato e incostante, preferivo uscire la sera che fare lezione la mattina. I miei maestri sono stati gli spettacoli che ho visto, come 1980 di Pina Bausch al Teatro Argentina di Roma: ebbe su di me un effetto deflagrante perché mi mostrò la possibilità di ‘fare altro’, qualcosa di diverso. Rimasi così colpito che tentai poco dopo l’audizione per lavorare nella sua compagnia: una selezione di dieci ore, tra lezione di danza classica ed estratti dai suoi spettacoli. Arrivai fino all’ultimo, ma non mi prese. Ero giovane e ingenuo, soprattutto in confronto ai suoi ballerini che avevano già una certa maturità anagrafica e artistica, segnati dalla vita e dalla professione. Nonostante la delusione, l’esperienza mi segnò notevolmente e tornai pieno di nuovi stimoli. Credo che la somma di tutto questo possa dirsi un ‘maestro’. Io stesso non aspiro ad esserlo, ma svolgo un’attività in cui racconto la mia visione della danza; se questo trova affinità nei pensieri di un danzatore, in qualche modo, involontariamente, sarò per lui un maestro”.

Il pubblico che andrà a teatro a vedere Giulietta e Romeo riscoprirà un classico della coreografia italiana, potente come trent’anni fa e ricco dello sguardo contemporaneo di un autore che non smette di  coinvolgere e stupire: “È una coreografia che ha resistito al tempo, e questa è già una cosa rara. All’epoca fu un’operazione coraggiosa (grazie anche a Cristina Bozzolini, allora direttrice del Balletto di Toscana), ricordo bene la reazione del pubblico all’apertura del sipario, al fatto di trovarsi di fronte un muro decrepito al posto della bella Verona shakespeariana e il personaggio di Lady Montecchi in sedia a rotelle. Oggi lo guardo con la tenerezza e la rabbia del tempo che passa, ma trovo che abbia ancora un senso, perché racconta in maniera cinematografica una storia che tutti conosciamo in un involucro nuovo, insolito e significativo. Quando si toccano capolavori o storie che appartengono alla memoria di tutti, l’importante è conservare un senso e non stravolgere per velleità di modernità. Bisogna far capire ‘cosa’ si sta facendo. Chi tornerà a vederlo perché già lo aveva amato in passato, forse scoprirà qualcosa di nuovo su se stesso; ma spero ci sia anche un pubblico nuovo, giovane, contemporaneo”.

Mago del racconto e dei finali, Fabrizio Monteverde chiude ricordando il proprio dovere d’artista: “Non ho mai creato pensando al messaggio che intendevo lasciare, sono sempre stato più intento a toccare le corde più profonde dell’animo per dare quella cosa un po’ desueta che si chiama emozione, al di là dell’età o del genere di pubblico a cui mi rivolgevo. Nel cinema si piange facilmente, aiutati dai primi piani e dalle espressioni del volto; in teatro è più difficile, ma resta possibile. Quando alla fine di un mio balletto scorgo gli occhi lucidi di una spettatrice, comprendo di aver toccato l’essenza del sentimento: questo è il mio dovere, lo è stato per tutta la vita e ancora oggi mi gratifica”.

Un dovere che onora da sempre e per il quale il suo pubblico, da oltre trent’anni, applaude riconoscente.

Lula Abicca 

05/03/2017

Foto: 1. Fabrizio Monteverde, in prova al Balletto di Roma, ph. Matteo Carratoni; 2.- 17. Giulietta e Romeo di Fabrizio Monteverde, Balletto di Roma, ph. Gabriele Orlandi; 18. Fabrizio Monteverde, in prova al Balletto di Roma; 19.-20. Bolero di Fabrizio Monteverde, Balletto di Roma; 21. Fabrizio Monteverde; 22.-24. Cenerentola di Fabrizio Monteverde, Balletto di Roma, ph. Cristiano Castaldi; 25. Fabrizio Monteverde, prove al Balletto di Roma con Sarah Taylor e Anna Manes; 26.-29. Otello di Fabrizio Monteverde, Balletto di Roma; 30. Fabrizio Monteverde in sala prove al Balletto di Roma per Il lago dei cigni ovvero Il canto;  31.-35 Balletto di Roma ne Il lago dei cigni ovvero Il canto di Fabrizio Monteverde, ph. Matteo Carratoni.

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