L'intervista

Matteo Levaggi racconta la sua vita, la sua idea di danza e il suo lavoro di coreografo.

Un’intervista di Michele Olivieri a Matteo Levaggi, per lunghi anni coreografo del Balletto Teatro di Torino, e attualmente impegnato in un progetto pluriennale dedicato ai giovani e alla promozione della danza contemporanea. Nell’intervista Levaggi racconta la sua passione per la danza, la sua carriera a partire dalle esperienze televisive con Raffaella Carrà e Lorella Cuccarini, e il suo lavoro come coreografo, le collaborazioni con altri artisti e il progretto Bird’s Dance Project che approda anche alla DanceHaus di Milano.

Matteo Levaggi, chi ti ha indirizzato verso la danza?

Come per la maggior parte dei danzatori della mia generazione, a parte un istinto innato, è stata la televisione dei tempi d’oro, con i suoi balletti, ballerini magnifici e coreografi capaci di rapire il mio sguardo a farmi decidere per questa carriera. Ma il ricordo più bello erano i balli in piazza nelle feste popolari con la mia nonna. Momenti bellissimi.

Da piccolo cosa sognavi di fare “da grande”?

Il primo grande sogno era quello di diventare medico. Poi si è trasformato nella volontà di inventare un mio mondo. Creavo nella mia camera da letto veri e propri spettacoli. Inventavo luci, scene, assemblavo musiche.

Dopo varie esperienze come danzatore, tra cui una partecipazione a un celebre programma televisivo di Raffaella Carrà, come ti sei accostato alla coreografia?

In realtà, come dicevo prima, l’ho sempre fatto, ma ad un certo punto ho capito che la mia strada sarebbe stata quella della coreografia. Mi diedero la grande possibilità di realizzare questo sogno al Balletto Teatro di Torino, compagnia che per molti anni ho contribuito a far crescere, plasmato, assieme a Loredana Furno, dandogli un’impronta molto personale che ci ha portati in alcuni dei più grandi palcoscenici internazionali con un’identità precisa che oggi porto ancora avanti con grande fermezza.

A proposito della Carrà, un mito italiano entrato nella storia della televisione: quale ricordo conservi e un aneddoto del dietro le quinte?

Era il 1999 e la TV era in mano sua. Come molti dicono sia una persona estremamente forte e questo lo si respirava ampiamente in studio, sia durante le prove che nella diretta. Carràmba che Fortuna era una macchina ampiamente rodata che fece epoca, paragonabile oggi ad Amici, che si spinge ancora oltre, dando la possibilità, specialmente ai cantanti, di arrivare veramente a conquistare un ruolo importante nella nuova generazione della canzone italiana e di quella televisiva. Del dietro le quinte ricordo quella che chiamavo la trasformazione. Da Pelloni a Carrà. Impressionante. Il trucco, le parrucche, gli abiti che le trasformavano il corpo!

Che aria si respirava negli studi della Rai? Il Corpo di ballo, in quegli anni, aveva ancora un ruolo importante in televisione?

Rispetto a ciò che preparavamo in sala prove, a volte balletti molto lunghi, si cominciava a dare spazio alla tv verità, c’erano le sorprese fatte alle persone comuni che prendevano molto spazio. Tutte vere! Era forse un momento di spaccatura. Personalmente avevo molto spazio nella fascia pomeridiana che precedeva il TG1. Era una sorta di Non è la Rai al maschile. Eravamo molto amati dalle fans.

Hai avuto altre esperienze televisive oltre a Carràmba?

Prima di Carràmba feci qualcosa a Buona Domenica con Lorella Cuccarini. Molto poco però, ero concentrato nel mio lavoro in teatro, davo poco peso alla televisione perché sentivo che come danzatore avrei fatto molto poco.

Come artista, verso quale repertorio ti senti maggiormente incline?

Molto spesso sono considerato un coreografo classico. In un certo senso non è errato. Il mio lavoro ha radici profonde nel vocabolario classico, poi certamente si sviluppa, specialmente nelle braccia verso linee che si contorcono, si avviluppano e sviluppano. Piuttosto è il contesto in cui immergo le mie danze ad essere contemporaneo, con collaborazioni forti, come con Corpicrudi, con cui creiamo ambienti in cui il danzatore si trova ad interagire, oppure con scelte musicali importanti, come nel caso di Carlo Boccadoro, Giovanni Sollima e il giovane Lamberto Curtoni che hanno creato pagine musicali straordinarie per i miei lavori. Come loro parto da studi classici per poi esplorare mondi nuovi.

Ritieni che lattuale metodo di insegnamento della danza in Italia sia efficace?

In Italia ci sono validissimi insegnanti per il classico. Forse ciò che manca è un’idea più chiara di cosa sia la danza contemporanea. Vi sono molte confusioni. Al momento con Alkema Ambasciatori di Cultura, stiamo per inaugurare un progetto molto importante della mia carriera. Ho accolto l’invito di Susanna Beltrami per portare il mio Bird’s Dance Project nella sua bellissima DanceHaus a Milano. Questa credo sia l’occasione importante, non per insegnare, ma per trasmettere parte della mia esperienza e di quella dei collaboratori che passeranno nel tempo da noi, a quei danzatori che hanno il coraggio di spiccare il volo e che vogliono affrontare un discorso chiaro sulla danza, sul movimento, a prescindere dallo stile, dalle estetiche esteriori.

Nel mondo della danza italiana molti però si improvvisano anche perché non c’è nulla che regolamenti l’insegnamento. Cosa ne pensi?

Quello dell’insegnamento è un problema molto serio che dovrebbe essere preso di punta e indirizzato verso le esigenze attuali dei coreografi non solo italiani. Non con un regolamento ma con una indicazione di strada precisa. Non sento però di poter dire molto su questo, non mi ritengo un insegnante anche se tengo le classi del mio gruppo che peraltro spingo ad aprirsi ad altri maestri proprio per approfondire nuove strade.

Qual è stato il tuo primo lavoro coreografico?

Era una serata composta da due balletti: Salome ed Echolalia, quest’ultimo dedicato a Mauro Bigonzetti, essendo stato creato poco dopo la mia uscita da Aterballetto. Avevo voglia di mettere in pratica ciò che avevo imparato, specialmente nei passi a due, cosa che oggi si insegna molto poco. Fu il mio debutto di coreografo con il BTT. Da quel momento diventai una macchina creativa consegnando alla compagnia un repertorio vastissimo, spinto dalla voglia di stare in sala prove e di coprire le esigenze della direzione. Un’arma a doppio taglio che oggi ho voluto frenare per dedicarmi con più serenità al mio lavoro.

Attualmente vivi a Firenze e sei direttore artistico e coreografo residente del progetto Bird’s Dance Project Matteo Levaggi & Guests. Ce lo illustri?

Il BDP, nasce dalla mia volontà di creare balletti per dei giovani danzatori e che grazie a Marosa d’Annunzio e Giovanna Clerici di Alkema Ambasciatori di Cultura ha preso vita lo scorso gennaio. Non si tratta di una compagnia ma di un gruppo che al momento lavora a stretto contatto con me ma che in futuro si troverà a confrontarsi con coreografi ospiti e pezzi di repertorio contemporaneo del passato che ho intenzione di acquistare. Credo che l’esperienza al BDP, per i primi ragazzi che ci sono passati e che lo hanno sostenuto, sia stata molto forte. Quasi tutti non avevano mai danzato in teatri come il Ponchielli di Cremona, e da un giorno all’altro si sono trovati ad avere una forte responsabilità che hanno colto con grande intelligenza, forza, entusiasmo e talento.

Come si svolge la tua giornata lavorativa?

Lavoriamo esattamente come una compagnia di danza. Classe al mattino di classico o contemporaneo e poi laboratorio coreografico o prove delle due produzioni oggi in programma. Tutto con un’energia fortissima, grande calma e moltissima serenità. I ragazzi che sono adesso al BDP sono davvero speciali per questo, non siamo una famiglia, ma esiste tra noi moltissimo rispetto e affiatamento.

Ti alleni ancora come danzatore, o hai abbandonato definitivamente la danza in veste di ballerino?

Abbandonato totalmente tutto! Mi tengo in forma solo per i progetti con Copricrudi che vanno avanti e che vedranno presto collaborazioni con altre figure importanti della danza italiana. Non vedo l’ora in un certo senso, ma ogni volta è dura per il mio corpo. Sono pigrissimo e l’idea di allenarmi mi spaventa molto, ma credo che in qualche modo, anche se in Concept completamente differenti, il mio stare in scena, serva anche al mio lavoro di coreografo.

Come ti accosti alla preparazione di una nuova coreografia?

Parto sempre da una visione che poi prende forma. Sono molto influenzato dal cinema, dalla fotografia, ma anche dal lavoro di altri coreografi che mi spingono ad approfondire certi aspetti del mio lavoro. Ci sono coreografi giovani molto interessanti. Quando sono stato al NYCI/NYCB ho visto il lavoro di Robert Binet. L’ho trovato meraviglioso, colto, frutto di chi la danza, già da così giovane, la conosce davvero.

Com’è stata la recente esperienza e consacrazione a Los Angeles?

Un’esperienza davvero unica! La Fashion Week è un turbinio di persone, luci, spazi grandi che si riempiono e svuotano. Abbiamo allestito Preludio per una Sinfonia in Nero tra una sfilata e un’altra. Siamo entrati in scena con ancora le mani sporche di polvere, senza scaldarci, ma è stato fortissimo! Una vera atmosfera PUNK.

Recentemente abbiamo condiviso un paio di Giurie di Concorsi di Danza. Trovi che questo tipo di manifestazioni siano utili per la crescita professionale e artistica dei giovani allievi?

Credo di sì. Io stesso nel 1993 vinsi il Concorso di Rieti. Dico la verità, non amavo fare concorsi, anzi, ma a quell’età, ti danno la possibilità di rompere un muro. Devi andare in scena e in poco tempo convincere la giuria. Oggi l’unica cosa che ho notato è un poco di fanatismo da parte dei danzatori. Inseguendo i concorsi credo si perda troppo tempo, non essendo un lavoro sul proprio corpo realmente creativo, ma un flash, un concentrato di capacità personali che spesso mi risultano effimere.

Quali sono oggi i problemi per una compagnia di danza, nellattuale panorama politico-sociale italiano?

L’ideale di compagnia con un suo direttore o coreografo a capo di tutto con i ballerini che eseguono penso sia ormai una pagina da dimenticare. Strutturalmente, a parte alcune rare eccezioni, penso che sia più creativo portare avanti un concetto capace di interagire con gli altri, capace di creare network, e di essere libero allo stesso tempo.

Cosa rappresentano in generale le tue coreografie? C’è un filo sottile che le lega dalla prima allultima?

Rappresentano la vita attuale. Il ritmo e il tempo in cui viviamo. Per questo sostengo che il mio lavoro tratti temi contemporanei, anche quando il titolo è Caravaggio. Contemporaneo non è un fattore estetico, come un vestito casual messo in scena. Essere presenti nell’oggi è un’attitudine come rimanere ancorato (e lo dico senza pregiudizio), nel passato.

Quali sono i punti di riferimento irrinunciabili dei tuoi lavori, anche tra quelli più vecchi creati per il Balletto Teatro di Torino?

Le collaborazioni con gli artisti. Si tratta di un modo di relazionarsi anche umanamente al quale non posso rinunciare.

Chi sono stati i tuoi maestri, non solo materiali ma anche ideali?

Merce Cunningham, Geroge Balanchine, Twyla Tharp, Mauro Bigonzetti, Karole Armitage, Luca Veggetti, tanti e tanti, ma anche molti danzatori. Ho ancora impresso nella mente un giorno alla Scuola di Balletto di Liliana Cosi, quando la vidi studiare. Cominciai a percepire la differenza tra lo studiare meccanicamente e lo studiare con una ricerca personale su come eseguire le cose. Era un momento bellissimo. E poi i danzatori. Loro sono i veri maestri per un coreografo di oggi. Hanno fantasia, possibilità fisiche a volte molto particolari, capaci di darti degli stimoli davvero forti.

Lumiltà: quanto conta nella danza?

Moltissimo, ma ho riscontrato che spesso, si perdono colpi e si sbaglia. Tuttavia credo che un artista debba si essere umile e avere controllo su questo aspetto, ma come si pecca spesso di egoismo (la danza è anche questo), anche la mancanza di umiltà contribuisce a volte a farsi forza per imporre le proprie idee. Si tratta però di equilibri che si imparano a gestire mano a mano crescendo.

C’è in particolare un ballerino o una ballerina della scena contemporanea con cui ti piacerebbe lavorare o creare?

Al momento ho solo voglia di creare per i miei giovani. Nel futuro mi troverò a rapportarmi, come già è successo nel passato, con danzatori più grandi straordinari, ma al momento voglio stare in sala prove con un’altra energia. Credo che le Star oggi abbiamo troppe pretese e che facciano spesso delle scelte poco intelligenti anche rispetto al proprio modo di essere. Un’eccezione che mi ha sempre colpito è Mikhail Barishnikov. Grande intelligenza nel suo saper cambiare, voltare pagina.

Oltre la danza, quali altre passioni coltivi?

Se non lavoro mi piace vivere la vita in modo molto semplice, ma anche estremo. Questo spesso spaventa le persone, ma è il mio equilibrio e ritmo interiore che si è evoluto così grazie a questo lavoro. Amo stare sveglio di notte, amo avere controllo delle mie azioni ma anche lasciami andare. Come dice David Lynch, solo nelle acque più profonde si trovano i pesci più strani. Ecco, ogni tanto mi piace immergermi giù, sempre più giù.

Pensi sia indispensabile per un coreografo aver avuto esperienza di danzatore e/o di insegnante?

Assolutamente no. ci sono coreografi molto interessanti che non sanno nemmeno cosa sia un Battement Tendu. Sono pochissimi, ma ci sono. Detto questo però, hanno un innato senso di ciò che sia il corpo nello spazio ad esempio.

Ti piace insegnare in sala danza o durante gli stage ai danzatori del domani?

Moltissimo, ma sai cosa non mi piace? Come vengono organizzati questi stage. Ecco, quando mi trovo in una situazione in cui non trovo le condizioni per un lavoro vero, mi blocco. Per questo è nato il Bird’s. Sarà concentrata lì la mia dimensione. Chi vorrà potrà venire a stare con noi, per poco o per tanto che sia e vivere un’esperienza di danza.

Cosa vuol dire per un coreografo poter lavorare con un gruppo stabile di ballerini professionisti?

Ho sempre sostenuto che fosse una cosa positiva, ma oggi ci sto pensando. Forse non è davvero così. Ma non lo so ancora, ci devo pensare. So solo che dopo l’esperienza con il BTT, nonostante il salto nel vuoto, pensavo di perdere energia e forza. Non è stato così, mi sono ripreso, dopo un periodo di forte malessere, per diventare più forte.

Negli ultimi la danza ha trovato una nuova evoluzione, i danzatori sono più atletici, quasi dei ginnasti… secondo te è un bene o un male?

Mi diverto a volte nell’utilizzare queste capacità, ma poi credo che tutti sappiamo bene dove stia il danzatore che danza. Spesso mi basta il movimento di un polso per far sì che mi piaccia lavorare con qualcuno. Perché devo pretendere tutto? Perché devo avere tutti danzatori con gambe e piedi estremamente flessibili se poi hanno gli occhi persi nel vuoto?

Che cosa ti auspichi per il futuro della coreografia?

Che esista ancora nel futuro.

Chi trovi geniale nel panorama internazionale nel mondo della danza contemporanea a livello di nuovi linguaggi?

Difficile rispondere perché viviamo un momento in cui le categorie, almeno io la penso così, non esistono più. Tutti prendono da tutto ciò che ci circonda, dunque vi sono pezzi qui e là che mi coinvolgono. Una cosa che però mi colpisce spesso è l’onestà del lavoro, a prescindere dalla bravura o meno dell’artista. Per fare un nome, direi che nonostante il suo lavoro sembri sempre ricondursi allo stesso punto, Wayne McGregor abbia comunque rotto delle barriere. Questo coraggio, questa capacità, mi colpiscono.

Se la tua danza fosse un film a quale lo paragoneresti?

La paragonerei ad una scena di Eyes Wide Shut. Quando Tom Cruise attraversa il corridoio dopo essersi imbucato alla festa e subito dopo quando gli chiedono di seguire un uomo mascherato. Quest’aria misteriosa che Kubrick crea mi affascina moltissimo. Tutto è lì, sotto i nostri occhi, ma vedendo e rivedendo la scena scopri sfumature sempre differenti.

E se fosse un libro?

Alice nel paese delle meraviglie.

La musica come si combina con il lavoro del coreografo e in particolare con il tuo?

In modo aleatorio. Si tratta di uno strumento imprevedibile ma che vive nel suo spazio.

Le tue scelte, passate e presenti, sono dettate più dal coraggio o dall’incoscienza?

Credo assolutamente dal coraggio. Spesso mi sono trovato, se pur come mi dicono – seduto su di un cuscino di visone – a combattere, eccome! Avere carta bianca nella mia esperienza è stata una situazione che mi ha portato anche a soffrire. Se ti danno credito, se hai persone che credono in te, devi avere il coraggio di lottare affinché il tuo lavoro rimanga intatto, e non è detto che le persone vogliano davvero ascoltarti, anche se dall’esterno parrebbe di sì. Ognuno comunque ha la sua storia, carriera e spazio.

Quale messaggio pensi che la danza possa avere e trasmettere per i giovani del futuro?

Non amo passare dei messaggi. Credo si possa trovare qualcosa nel mio lavoro. L’unica cosa che penso è che oggi, proprio perché tutto nella nostra società è già tanto difficile, si debba smettere di avere paura. Si rischia così di non costruire un futuro. Vedo molta paura, conformismo, lentezza. Invece è il momento di smuovere i sassi e far scorrere il fiume.

Michele Olivieri

17/07/2015

 

Foto: 1. Bird’s Dance Project diretto da Matteo Levaggi; 2. Bird’s Dance Project diretto da Matteo Levaggi, ph. Bonicalzi; 3. InVento di Matteo Levaggi; 4. Matteo Levaggi; 5. Preludio per una Sinfonia in Nero, istallazione firmata da Levaggi e Corpicrudi, ph. Chiara Rainer; 6. Preludio Matteo Levaggi, ph. Arash Radpour; 7. Preludio di Matteo Levaggi, ph. Roberto Poli; 8. Matteo Levaggi.

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