La recensione

Ovazioni per Mikhail Baryshnikov al Teatro la Fenice di Venezia per l’omaggio all’amico Joseph Brodsky

Alla Fenice di Venezia si è concluso il tour di Brodsky/Baryshnikov, spettacolo ideato e diretto dal regista lettone Alvis Hermanis. Interpretato da Mikhail Baryshnikov, lo spettacolo è un commovente viaggio nelle profondità delle complesse composizioni del poeta russo Joseph Brodsky, un meraviglioso “one man show”, di struggente bellezza, in cui ritmo e narrazione diventano movimento sublimando in energia pura.

È semplice: Mikhail Baryshnikov dovrebbe essere dichiarato Patrimonio dell’umanità. Il suo talento non consiste solamente nell’arte di aver plasmato, a favore della danza, un corpo perfettamente armonioso, con la determinazione e il genio di un grande artista. Il suo valore aggiunto sta nell’essere stato capace, già il secolo scorso, quando l’interconnessione mediatica non era ancora avanzata, di appassionare alla danza (alla sua danza) anche i profani del balletto classico come, per esempio, gli amanti del musical e del cinema. Tutti erano d’accordo. Lui era un grande. E continua ad esserlo.

Stella indiscussa della danza classica e contemporanea, nato il 27 gennaio 1948 in Lettonia, Baryshnikov ha da sempre incarnato l’esemplare di artista a tutto tondo.

Rivoluzionario nell’animo, come nella vita, Mikhail va oltre l’abnegazione al balletto classico, tipica di molti suoi colleghi danzatori. Iniziò a studiare danza giovanissimo, per divenire solista al Kirov Ballet a soli vent’anni. Quando decise di abbandonare la Russia comunista (fu esiliato all’età di 27 anni), danzò in tutto il mondo per poi stabilirsi a New York, dove divenne étoile del New York City Ballet, diretto dal leggendario George Balanchine. Negli anni Ottanta fu coreografo dell’American Ballet Theatre e nella sua ricca carriera di ballerino ha alternato il repertorio alle sue coreografie, la danza classica alla danza contemporanea, senza disdegnare alcune incursioni nel musical. Ha danzato accanto a Liza Minnelli e sulle note delle più belle canzoni di Frank Sinatra, in coreografie tagliate a misura della sua impareggiabile versatilità.
Misha (nome affettuoso con cui è noto) non si fermò al palcoscenico e portò la danza anche in altri settori artistici. Le sue apparizioni cinematografiche ottennero importanti riconoscimenti. Con il film Due vite e una svolta, venne nominato agli Oscar come miglior attore non protagonista. Fu poi il ruolo da protagonista in Sole a mezzanotte a convalidarlo star del cinema. Con grande senso del mezzo, e senza alcun tipo di snobismo, Baryshnikov è stato anche star di una delle serie tv più amate degli anni Novanta, interpretando uno dei fidanzati di Carrie Bradshow in Sex and the City.

La poliedricità del suo ego artistico oggi non si è ancora esaurita. Numerose sono le produzioni teatrali in cui spicca la sua capacità interpretativa, come attore più che come ballerino, quali Forbidden Christmas, or The Doctor and the Patient, Beckett Shorts, In Paris, Man in a Case, The Old Woman e Letter to a Man.

Sulla scia di questo filone, Baryshnikov è approdato ora ad affrontare un lavoro meticoloso ed avvolgente del regista Alvis Hermanis, la cui costruzione è durata per ben 15 anni. Per il regista lettone leggere Brodsky è un’esperienza fisica, dove le immagini create dalle parole divengono sensazioni percettive, spesso dolorose, di un sognare e di un vivere senza nessun futuro e forse nessuna possibilità di salvezza. Nello spettacolo Brodsky/Baryshnikov, l’ancora splendido Misha si esibisce in un lungo monologo sulle composizioni del poeta russo Joseph Brodsky, suo amico, configurando un commovente viaggio nel profondo delle viscerali e complesse composizioni del poeta premio Nobel.

Dopo Napoli e Firenze, è spettato al Teatro La Fenice di Venezia ospitare Brodsky/Baryshnikov, meraviglioso “one man show”, in cui ritmo e narrazione diventano movimento sublimando in energia pura.

All’apertura del sipario, una fievole luminosità mette in risalto una sagoma in controluce. È lui. Lo si riconosce subito. I capelli folti, il profilo armonioso e l’incedere nobile.

Mikhail Baryshnikov apre una porta, esce da una stanza di vetro e si siede su una panchina, appoggiandovi una valigia, che si scoprirà contenere una sveglia, dei libri e qualche altro oggetto di vita. Della vita di Joseph Brodsky. Tutto è stupendamente reale, nessuna finzione, così come reale è il desiderio di Mikhail di accendere la sigaretta che mette tra le labbra. Palpeggia la sua giacca e i pantaloni, ma non trova l’accendino. Come sempre. Come sempre succede a chi ha l’impellente necessità di abbandonarsi ad un breve vizio consolatore. Il protagonista allora desiste. Prende un libro e indossa un paio di occhiali. Sicuramente lo spettatore non è abituato ad un Baryshnikov con gli occhiali da lettura. Ma, non appena il danzatore inizia a leggere qualche riga in russo e i sottotitoli iniziano a comparire, ecco che arriva la stessa medesima magia che da sempre accompagna ogni esibizione dell’artista.

«In teatro si realizza quanto lenta sia l’anima… Un punto è più visibile di una realtà…Un corpo posto nello spazio viene spostato anche dallo spazio stesso».

Quanta danza c’è nelle poesie di Joseph Brodsky, e quanta danza c’è nella recitazione di Misha. Questo è il primo pensiero che invade la testa dello spettatore. La descrizione, precisa e puntuale, che le parole di Brodsky rendono dello spazio e della vita, consentono, a chi ascolta, di liberare l’animo chiuso nella gabbia del corpo.

Si tratta dello stesso concetto di cui, da anni, Baryshnikov si è fatto ambasciatore, fondando a New York il White Oak Dance Project: «Non conta quanto alta riesci a tenere la gamba. La tecnica riguarda trasparenza, semplicità e la volontà di provarci sempre con onestà». Alessandra Ferri, facendo tesoro di questo insegnamento, non molto tempo fa, in un’intervista confessò: «Ho visto danzare Mikhail Baryshnikov a 65 anni. Lui mi ha dato il coraggio di tornare sulle scene».

Brodsky/Baryshnikov (coproduzione di New Riga Theatre e Baryshnikov Productions) ha debuttato il 15 ottobre 2015 a Riga, in Lettonia. Le scenografie sono di Kristīne Jurjāne, il light desing di Gleb Filshtinsky, il suono di Oļegs Novikovs, le luci di Lauris Johansons e i video di Ineta Sipunova.

La scenografa Kristīne Jurjāne ha individuato in una costruzione di ferro e vetro, dallo stile antico e che invade l’intero palcoscenico, una perfetta delimitazione dello spazio in cui l’artista si muove. L’alternanza tra il suo entrare e uscire dall’imponente struttura, rappresenta il continuo gioco di dialogo dell’interprete con il suo io più intimo e la platea intera, in ascolto contemplativo.

Il tempo passato ha lasciato i suoi segni sul palazzo di vetro abitato da uno straordinario esemplare di essere umano. La vernice non splende più e i vetri non sono del tutto trasparenti. La colonnina della corrente elettrica fa continuamente corto circuito, come improvvise scintille di energia, energia vitale che rende più vivido l’effetto delle parole di Brodsky. Esse sanno far guardare all’interno di se stessi, creando delle vie di fuga per l’anima. Baryshnikov muovendo i piedi, le mani e tutto il suo corpo come se esso si fosse parte della poesia narrata, recita i versi scelti del vecchio amico. Il ritmo poetico è la sola musica dello spettacolo.

Lo spettatore recepisce di non essere di fronte ad una vera coreografia, ma ad una performance imparentata quasi con il teatro-danza, poiché la personalità dell’interprete e la sua comunicativa rendono il monologo ascrivibile pienamente alla danza. Brodsky passa attraverso la bocca di Baryshnikov e a loro volta le parole del poeta sono musica per il danzatore che, seguendola, stimola il suo movimento.

Solo l’acqua resta fedele a se stessa…

…Di notte il mondo è sul punto di farsi incandescente…

…La solitudine insegna l’essenza delle cose perché la loro essenza è solitudine.

Baryshnikov in più occasioni ha ricordato le circostanze del primo incontro con il poeta, nel 1974 durante un party in casa di Rostropovich. «Il mio primo incontro con Joseph fu a una cena a New York. Ero appena fuggito dall’Urss, mentre Brodsky ne era stato espulso due anni prima. Dopo cena ci dirigemmo al suo appartamento nel Greenwich Village per bere un caffè. Quella sera consumammo ben più di un paio di espressi, tutti corretti con whisky Bushmills proprio come piaceva a lui. Mi sentivo un po’ fuori di testa e non mi riuscì di dormire per un bel po’; il cuore mi batteva all’impazzata. Certo non era solo colpa del caffè. “Non ci mancano argomenti di cui parlare” disse Joseph con sicurezza. E parlammo, senza sosta per ore. Entrambi avevamo vissuto a Leningrado gli anni della formazione. Amici e conoscenti, abitudini e situazioni: le nostre esperienze si rivelarono sovrapponibili e condivise. Ricordammo i luoghi dove abitavo nel mio decennio di Leningrado. Tutti gli erano familiari: egli amava quella città, rispecchiata nella Neva e nei canali, e ogni tanto trasfigurata nella tela di un astrattista da una raffica di vento del Baltico. Ricordo le ciglia di Brodsky sollevarsi in estasi al cielo quando gli dissi che il mio ultimo appartamento era a un tiro di sasso dall’Hermitage, sull’argine della Moika, proprio di fronte alla casa dove visse e morì Pushkin. Con le labbra curvate in un triste e amaro sorrisetto, emise un sospiro. “Tutta quella bellezza – disse – e ce ne siamo andati lasciandola alle spalle”. Da quella sera in poi la nostra conversazione continuò senza sosta per oltre vent’anni. Parlavamo, se non ogni giorno, almeno ogni settimana. Mi telefonò la sera del 27 gennaio 1996 per augurarmi buon compleanno. Qualche ora dopo egli non c’era più».

Durante questa lunga amicizia il ruolo di Brodsky è stato anche critico sulle scelte artistiche del ballerino, a volte per cercare di dissuaderlo dall’intraprendere progetti dal profilo basso o dalle prospettive di breve respiro. «La mia amicizia con Joseph Brodsky ebbe su di me la più profonda influenza. Dopo essere entrato nella mia vita, Joseph divenne non solo un amico, ma in qualche misura anche un mentore, qualcuno che mi aiutò ad affrontare problemi quotidiani e ardui dilemmi morali. Non andavamo d’accordo su molte cose: lui era un conservatore nell’arte come nella vita, mentre io sarei un progressista. Eppure, per quanto possa suonare retorico, se ho acquisito qualche principio morale, ciò è avvenuto grazie a lui». Continua Baryshnikov: «Le sue poesie sono intellettuali quanto istintive e una parte dell’immaginario in cui sono inscritte si può trasmettere con il linguaggio del corpo. Ho tentato di esprimerne i significati non solo per via orale ma anche cineticamente. A tal fine, il magnifico regista lettone Alvis Hermanis ed io ci siamo rivolti al kabuki e al flamenco, agli stilemi del teatro danzato giapponese butoh e all’estetica della scultura greca antica. Non abbiamo fatto uso diretto delle tecniche originali di queste arti, ci siamo solo ispirati a esse. Talora cerco di esprimere col movimento ciò che Joseph ha articolato in parole con tanta precisione. Dopotutto, come ha detto Martha Graham, “il corpo non sa mentire”.  Joseph sapeva ascoltare. Spesso guardava dritto negli occhi il suo interlocutore come se cercasse di capire (con successo) se gli dicesse o meno la verità. Brodsky possedeva un dono straordinario: sapeva osservare le persone, applicare la sua intelligenza lucida e vivace per valutarne il comportamento, ed esprimere le sue osservazioni in modo conciso, con aforistica precisione».

Ai due amici bastò un secondo incontro per passare dal formale ‘voi’ al confidenziale ‘tu’. «Fu lui stesso a proporre il cambiamento – ricorda Baryshnikov – ma ad una buffa condizione: lui mi avrebbe chiamato Mysh (Topo, in russo) invece di Misha, a causa dell’affinità fonetica. E si ribattezzò con un nome complementare al mio nuovo nomignolo: il Gatto Joseph. Dopodichè emise un miagolio allegro e interrogativo come per sollecitare la mia approvazione. Da allora in poi non ci chiamammo più in altro modo». La loro amicizia fu duratura, attenta e devota. Baryshnikov era spesso il primo ad ascoltare di un pezzo appena scritto: «Topo, siediti e ascolta: penso di aver fatto centro!». Pieno di ammirazione per l’amico, Baryshnikov non solo possedeva un’eccellente conoscenza delle poesie di Brodsky, ma anche le sentiva in profondità.

È ben noto che Brodsky non frequentasse granché i teatri, ma tale mancanza d’entusiasmo non si estendeva agli spettacoli dell’amico, cui assisteva regolarmente e con piacere. I ritmi corporei e la coordinazione del grande danzatore possedevano, ai suoi occhi, una poetica mozartiana.

Brodsky dedicò a Baryshnikov un buon numero di scritti, in particolare scrisse una poesia dal titolo Il balletto classico è un castello di bellezza.

Che splendore a notte alta, fuori dalla Vecchia Russia,

guardare Baryshnikov: il suo talento non ha perso vigore!

Lo sforzo del polpaccio, il fremito del busto

rotante intorno al suo asse, dà inizio

a quel volo che l’anima ha bramato dal destino, come

le vecchie serve festeggiano i sogni mutandosi in troie.

E per lo spazio e il tempo che tocca la tua scarpetta:

beh, la terra è dura ovunque; prova gli Stati Uniti.

Grazie anche allo spettacolo Brodsky/ Baryshnikov, il poeta non è stato sepolto nelle ceneri dell’oblio ma i suoi lavori continuano a essere pubblicati in Russia con tirature enormi. Artisti di Russia e d’Occidente scrivono ricordi su di lui e gli dedicano poesie. Ne sono raccolte duecento in un’antologia intitolata Da quelli che non mi dimenticano, che include reminiscenze delle persone a lui vicine, fra cui un saggio del suo devoto amico Mikhail Baryshnikov. Esso termina cosi: «Sono passati diciassette anni dalla sua morte, ma posso ancora sentire su di me lo sguardo fermo di Joseph, posso ancora avvertire la sua presenza spirituale: un’impressione che spesso può farsi piuttosto intensa. Mi sono sempre considerato una di quelle persone su cui egli ha profuso cure e attenzioni, e che per questo hanno davvero goduto di una singolare fortuna».

 Annalisa Fortin

23/07/2018

Foto: Mikhail Baryshnikov in Brodsky/Baryshnikov, Teatro La Fenice, ph. Michele Crosera

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