L'intervista

Suraya Hilal. L’Egitto e il Medio Oriente si incontrano con la danza contemporanea.

Suraya Hilal, danzatrice e coreografa egiziana, è fondatrice della Hilal Dance, danza contemporanea dalle matrici arabo egiziane. Nell’intervista racconta la sua esperienza tra America, Inghilterra, Nord Europa, Italia e Australia.

E’ dagli anni Ottanta che Suraya Hilal gira il mondo per formarsi nello studio della danza contemporanea e delle danze tradizionali dei vari popoli. Una ricerca artistica instancabile che le ha permesso di acquisire il patrimonio di conoscenze culturali necessarie a ricodificare le danze tradizionali della sua terra e a tradurle in un nuovo linguaggio coreutico che unisce tradizione e innovazione.

Con la Hilal Dance la danza egiziana si libera dai “confini geografici” e diventa danza d’arte: una danza di espressione teatrale contemporanea.

In un momento così difficile per la danza e la cultura nel mondo, abbiamo chiesto a Suraya, da sempre “in viaggio” per promuovere i suoi lavori,  quali sono le principali differenze che ha riscontrato nella danza in Italia e all’estero e come si deve muovere un coreografo che intenda affermare un nuovo stile di espressione e perché no, un metodo didattico d’avanguardia.

Suraya tu sei nata al Cairo, dove hai avuto modo di apprendere fin da piccola il patrimonio delle danze tradizionali egiziane. Ben presto sei volata negli Stati Uniti, dove hai perfezionato lo studio della danza contemporanea, della danza indiana e afro-americana alla Katherine Dunham School. Cosa hai notato di estremamente diverso nei modi di concepire la danza in questi due paesi

A quel tempo, come del resto anche oggi, in Egitto e nei paesi del Medio Oriente, la danza, come tutto ciò che è cultura, viene trasmessa da una generazione all’altra oralmente in ambito familiare. In America mi sono accorta da subito che la danza, insegnata nelle scuole, era parte di una cultura istituzionale, con sistemi formalizzati di movimento studiati accademicamente. E’ negli Stati Uniti che ho realizzato quanto fosse indispensabile una ricerca approfondita degli stili coreutici e didattici, finalizzata a codificare le nostre danze.

Come si è svolta la tua formazione in questa scuola?

Alla Katherine Dunham School ho appreso per la prima volta i diversi linguaggi attraverso i quali può esprimersi il corpo. Ho studiato le danze africane, indiane e le forme orientali. Espandendo le mie percezioni, ho poi applicato questi stessi linguaggi alla mia ricerca, riuscendo a formulare un nuovo metodo di movimento.

Verso la fine degli anni ‘80 hai spostato la tua attività in Inghilterra. Cosa ti ha spinto a trasferirti in Europa?

Il bisogno di fare esperienza e conoscere più profondamente le culture europee. L’Inghilterra ha rappresentato per me la possibilità di ampliare le mie conoscenze ed apprenderle attraverso la pratica.

L’Inghilterra è il paese che ti ha premiata a livello coreografico, consentendoti di portare in scena le tue prime creazioni grazie ai finanziamenti del Ministero delle Arti Britanniche. Come si muove un giovane coreografo che vuole emergere in questo Paese?

A quel tempo forse le cose erano un po’ più semplici di adesso. Io cominciai creando spettacoli di piccole dimensioni che portai in scena in tutte le regioni inglesi. Questo mi permise di essere conosciuta e di arrivare al Fringe Festival di Edinburgo in Scozia, grande vetrina per nuovi artisti e coreografi emergenti. Qui il mio lavoro fu ben accolto dalla critica dei più prestigiosi quotidiani e questo mi facilitò l’accesso al Ministero delle Arti Britanniche. E’ fondamentale nell’affermarsi per un coreografo emergente, avere il supporto della critica e del pubblico.

Quali difficoltà e quali vantaggi hai incontrato nel tuo percorso?

Allora le difficoltà maggiori per me erano date dall’essere l’unica che tentava di portare  avanti quel genere espressivo, e di affermare una forma così particolare di danza. Questo mi isolava un po’ dal resto del mondo coreografico. Ma con il tempo questo svantaggio si è rivelato un punto a mio favore, dal momento che il mio modo di danzare era completamente nuovo e la gente era desiderosa di nuovi approcci.

Ben presto hai ottenuto riconoscimenti dalla critica internazionale e anche la BBC ti ha dedicato dei documentari. In Europa i nuovi linguaggi coreutici vengono maggiormente apprezzati?

I documentari fatti dalla BBC sono stati molto utili per far conoscere il mio lavoro ad una vasta gamma di pubblico. Per quanto riguarda l’apprezzamento dei nuovi linguaggi coreografici, credo che l’Inghilterra, come tutto il Nord Europa, sia più aperto e pronto ad accogliere in generale nuove forme.

Hai lavorato tutta la vita per ricodificare le danze tradizionali egiziane e dar loro una forma contemporanea, creando una danza completamente nuova: la Hilal Dance. Quanto premia il coraggio di inventare nuovi metodi e nuovi stili? Non è forse una scelta tra le più azzardate nel  settore coreografico?

Nel lavoro di coreografo, inventare un nuovo linguaggio è estremamente appagante. Insegnare il mio metodo a professionisti o a semplici amatori  mi gratifica molto, perché i principi su cui si fonda la Hilal Dance sono di solito ben compresi dagli studenti. In effetti è un rischio presentare una nuova forma didattica e espressiva al mondo, ma allo stesso tempo è uno dei traguardi maggiori per un coreografo. Per me era quasi necessario, ma è stato anche spontaneo.

Ad un certo punto il tuo lavoro si è intrecciato con quello del coreografo italiano Alessandro Bascioni.  Avete creato nel tempo due compagnie: la Hilal Dance Company e la Iskandar Dance Company, con le quali girate il mondo. Dov’è che il vostro lavoro viene maggiormente compreso?

Per quanto riguarda l’accesso ai teatri, ai festival e alle rassegne in genere, lavoriamo meglio nel Nord Europa, soprattutto in Gran Bretagna, Germania, Olanda e Svezia. A livello di pubblico, abbiamo constatato che gli italiani, essendo forse geograficamente più vicini all’Africa e al Medio Oriente,  mostrano  una comprensione  maggiore per questo tipo di culture Africane/Orientali, sia dal punto di vista musicale che della danza e dunque sono più attratti dal nostro lavoro.

Siete poi tornati in Italia e avete creato una scuola a Firenze. Cosa ti è pesato a livello artistico nel passaggio dall’Inghilterra all’Italia?

L’Italia continua ad avere troppe difficoltà di accesso ai finanziamenti pubblici per chi intende promuovere un lavoro artistico, si perde nei cavilli burocratici e non investe nella cultura. In compenso è anche il Paese che sa accogliere più calorosamente l’arte in genere. Nei paesi del Nord Europa è sicuramente più facile ottenere un buon riscontro da parte dei direttori artistici e portare i lavori in teatro. Gli studenti nordeuropei di Hilal Dance che frequentano i nostri workshop sono attratti dalle  diverse forme di espressione corporea, ma  a differenza degli italiani, hanno un po’ più di problemi iniziali, forse a causa delle grandi diversità culturali.

Quanto incide la politica sul mondo della danza in Italia e all’estero?

La politica incide moltissimo ed ha un forte impatto nel mondo della cultura e della danza in generale. Se non ci sono i fondi non esiste supporto all’arte e quindi la cultura ne soffre. I governi devono realizzare che investire sulla cultura può essere solo una risorsa in grado di generare altro reddito. Inoltre devono comprendere che non soltanto l’arte già riconosciuta è essenziale, ma è necessario supportare anche altre forme innovative di arte e di danza, che allargano e arricchiscono il già ricco patrimonio culturale.

Spesso sei in Germania, dove svolgi seminari presso la Tanzhaus: 4.000 metri quadrati ricavati in un vecchio deposito di tram che ospita 2.500 visitatori alla settimana e offre circa 200 spettacoli l’anno. Si tratta forse del più grande centro internazionale per la danza contemporanea a livello mondiale. Perché in Italia non può esistere un luogo come questo?

Che dire… Mi sembra difficile immaginare l’esistenza di una location del genere in Italia, dove la cultura praticamente è all’ultimo posto.

Conosci bene anche l’Australia, un continente per noi estremamente lontano. Come è la danza lì?

In Australia il pubblico è molto incuriosito dal lavoro della Hilal Dance, probabilmente per il fatto che gli australiani stanno facendo molti sforzi per cercare di riconoscere e recuperare l’eredità della cultura aborigena.

Cosa serve ad un giovane coreografo oggi per muoversi bene a livello internazionale e non scoraggiarsi?

Per prima cosa deve credere nel proprio lavoro e nelle proprie capacità, e poi deve possedere una forte spinta interiore, di quelle alle quali non puoi dire di no, altrimenti la tua anima si spegne.

E a chi voglia cimentarsi nella ricerca didattica in campo coreutico e dar vita a nuovi metodi di danza, cosa consigli?

Per prima cosa bisogna avere una profonda conoscenza delle basi della danza che provengono dalle radici culturali popolari. E poi non può mancare l’ispirazione e la creatività che è un talento naturale e che ti consente di dare concretezza a quello che immagini, in qualsiasi forma e per qualsiasi metodo di espressione artistica e di movimento.

Gea Finelli

11/12/2014

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